
Emozionano e appassionano un pubblico vasto e variegato, reclutano registi e autori dal cinema, consacrano divi, dettano mode, linguaggi, stili di vita da decenni: qual è il segreto delle serie televisive?
di Maria Cristina Locuratolo 9 luglio 2007 16:49
Dawson’s Creek. The O.C. Alias. Lost. Chi non ha mai visto almeno una puntata di queste serie in tv, alzi la mano. E gli verrà mozzata per manifesta menzogna. Che cosa spinge milioni di telespettatori a seguire questi prodotti televisivi come veri e propri cult per serate e serate? I motivi sono diversi, e per scoprirli bisogna partire dalle origini del serial televisivo. Quando si parla di “serie tv” si è soliti definirle fiction, sottolineando il carattere finzionale di un prodotto che non è certo meno “reale” di un film cinematografico o di qualsiasi altra trasmissione televisiva. Ogni puntata si configura come un “microfilm”, un universo narrativo prêt-à porter, usufruibile comodamente dalla poltrona di casa nostra, che spesso ci risucchia nel suo vortice di personaggi e situazioni, tenendoci incollati allo schermo fino all’ultimo.Le serie tv non fanno distinzioni di pubblico, ce n’è per tutti i gusti, tutte le età, utilizzano un linguaggio comprensibile a tutti, e cosa più interessante, instaurano un rapporto di fidelizzazione con lo spettatore. Mente il mondo finzionale di un film si esaurisce nell’arco all’incirca di due ore, quello delle serie tv occupa uno spazio temporale che dura puntate e puntate, stagioni, spesso anni. Le fiction esplorano mondi reali e possibili, scandagliano l’animo umano, sviluppano storie e situazioni quotidiane o immaginarie attraverso cui si instaura una vera e propria relazione tra lo spettatore e i personaggi; ci si affeziona ai protagonisti, le vicende personali del pubblico vanno di pari passo con quelle fittizie dei suoi beniamini. Le serie tv sono un fenomeno culturale e sociale: culturale perché producono cultura in un’accezione ampia del termine, e sociale perché trattano problematiche che interessano non solo l’individuo come singolo ma la collettività, quali droga, crimine, salute, status della donna.
Era il lontano 1990 quando un cineasta come David Lynch si dedicò al progetto di una serie che ha segnato un’intera generazione, Twin Peaks. I misteri insoluti di una tranquilla cittadina americana, i tormenti interiori di una giovane ragazza assassinata che conduceva una doppia vita fatta di droga, sesso e depravazione, affascinano una parte considerevole di pubblico, sopratutto adolescenti. Twin Peaks ancora oggi viene considerato una sorta di “manifesto artistico” di Lynch, a riprova del fatto che le serie tv non sono film di serie B, anzi sempre più spesso essi posseggono una forza comunicativa e una creatività di cui molte pellicole odierne sono prive.Da Twin Peaks in poi notiamo come il passaggio dalla età adolescenziale a quella adulta, il trauma della crescita, interiore e fisica, sia un tema ricorrente nelle fiction seriali, basti pensare a Beverly Hills 90210 , Dawson’s Creek e il più recente The O.C., in cui i personaggi, tutti giovanissimi, si trovano a dover fare i conti con le prime esperienze “da grandi” e cercano una loro collocazione nel mondo, attivando meccanismi di identificazione e proiezione molto forti con i telespettatori che appartengono a quella fascia d’età. Così accade che serie tv diventano oggetti, o meglio, prodotti “di culto”; essi sono l’emblema di una generazione, ne interpretano i gusti, dettano le mode, affrontano problematiche familiari, sessuali, sentimentali adeguandosi al tempo che passa, ponendosi come specchio di una società che cambia rapidamente, che si reinventa continuamente.
J.J Abrams è invece il caso del momento: regista e soggettista statunitense, approdato in tv con la serie Felicity, raccoglie consensi e premi con il telefim Alias fino al successo planetario di Lost, vero e proprio fenomeno televisivo del 2006. E’ proprio vedendo gli episodi di Alias che Tom Cruise resta colpito da Abrams tanto da affidargli la regia del terzo capitolo di Mission Impossible, in cui sono ben visibili le traccie autoriali di questo giovane regista. Lost è un serial televisivo di avventura/thriller prodotto a partire dal 2004, ambientato su una misteriosa isola tropicale in cui si ritrovano i sopravvissuti di un incidente aereo. Ogni superstite ha una vita singolare, una storia al di fuori dell’ordinario a ciascuna delle quali l’autore dedica un intero episodio, permettendo allo spettatore di entrare nell’intimità di ognuno dei personaggi. E’ il mistero, ancora una volta, ad attrarre e ad ammaliare lo spettatore, ad indurlo a seguire, puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, questa serie televisiva. Ma quali sono gli ingredienti che hanno fatto di Lost un successo mondiale? Prima di tutto questo serial presenta un’originalità nei contenuti, è realizzata molto bene visivamente, ha un ritmo narrativo avvincente, crea suspence nello spettatore e ha una location che, non solo, in molte occasioni, determina lo sviluppo narrativo ma conferisce alle vicende dei personaggi un valore aggiunto.
Una grande ricchezza creativa, dunque, caratterizza i film tv a differenza delle opere cinematografiche attuali. Ne è una prova il fatto che autori, ormai privi di idee, ci ripropongono al cinema, rivisitazioni di telefilm cult anni’70-80: ne sono un esempio le Charlie’s Angels, Starsky and Hutch, Miami Vice, ecc. Proprio a causa della carenza di idee, il cinema sta diventando un riciclatore onnivoro, prende quel che può da tv, fumetti, persino da figurine e giocattoli (basti pensare a Tranformers, in sala in questi giorni), mentre la televisione continua a creare e a sfornare storie e divi. Lo stesso George Clooney deve la sua fortuna alla imitatissima serie E.R., dando il via a una serie di cloni televisivi in camice bianco che tentano di emulare il fascino del medico più amato della tv. Non è piu l’avvocato (Practice, Ally MacBeal) ma il medico, dunque, ad attirare l’attenzione del pubblico, sopratutto quello femminile. E così tra le corsie di ospedali immaginari si svolgono le vicende di Doctor House, Grey’s Anatomy, Nip/tuck. Gli autori fanno leva sulle paure più profonde dell’essere umano, quali la morte, la malattia e creano personaggi dalla funzione salvifica, magari un po’ cinici come Doctor House ("Sono diventato medico per curare le malattie, non i malati) ma eccellenti sotto l’aspetto professionale").
Ad un altro filone appartengono i telefilm fantascientifici quali il famosissimo Star Trek e Roswell oppure quelli in cui l’elemento magico e sovrannaturale è preponderante come Streghe o la simpatica Buffy L’AmazzaVampiri. Ci sono poi altre storie, più umane, universi femminili formato tv, così reali eppure così misteriosi per la complessità che li caratterizza, raccontati attraverso serial quali Sex and City e Desperate Housewives. Qui non si parla più di adolescenti angosciati, primi batticuori, college e università, ma di donne che hanno superato la soglia dei trenta, e vivono la loro dimensione nella società e il loro ruolo all’interno della famiglia o del mondo del lavoro. C’è tanta verità nelle loro vite, contraddistinte da autoironia e un pizzico di cinismo che non guasta. Il contesto può essere quello metropolitano di una città come New York o quello apparentemente perfetto e tranquillo della provincia, con le sue casette ben allineate e i giardini curati ma le storie, in ogni caso, sono autentiche e coraggiose perchè affrontano la realtà della donna senza maschere o ipocrisie. Certo il primo è più modaiolo e trasgressivo, l’altro più concentrato su quello che accade tra le pareti domestiche, ma entrambi toccano trasversalmente più generi, dalla commedia al dramma,dal giallo alla satira, fino alla soap-opera.
L’ultima novità al femminile è Ugly Betty, la protagonista, una vera e propria “cozza” con tanto di apparecchio per i denti e occhialoni, irrompe nelle nostre case con la sua sorprendente bruttezza ed ironia, stravolgendo i canoni estetici tradizionali e, contrariamente a quanto si possa pensare, “buca” lo schermo, affascina lo spettatore, piace. La serie è ispirata alla telenovelas colombiana "Betty la fea" andata in onda su Happy Channel dal 5 luglio 2004 al 24 febbraio 2005. Il format è stato declinato in oltre 70 paesi del mondo ed è diventato un fenomeno di successo già dalle prime puntate. Il personaggio di Betty è un paradosso vivente, lavora nel mondo della moda, è l’assistente personale del capo di uno dei magazine più famosi, veste malissimo, si muove in un mondo dominato dalle leggi dell’apparenza e dell’immagine e lei è uno sgorbio umano. Betty ha tutte le caratteristiche dell’eroina, è sicura di sé, e riesce a farsi strada nel lavoro nonostante il suo aspetto sgradevole, insomma è intelligente ed ha personalità. La serie si colloca a metà tra il “serio e faceto”, diverte ma non è comica a tutti i costi.
Un altro ibrido molto interessante è il telefilm Friends (che ha decretato il successo di Jennifer Aniston): a metà tra sit-com americana e soap-opera, questa serie non solo diverte il pubblico ma lo fa appassionare alle vicende dei protagonisti. Friends ci racconta storie di personaggi nei guai fino al collo, guai apparentemente senza soluzione, che fanno continuamente scelte sbagliate, non sono in grado di gestire le loro esistenze, e fanno e subiscono torti ma nonostante tutto sono allegri e contenti, e questo in virtù del fatto che sono amici, Friends appunto. Come dire si prende atto della sfiducia nei confronti delle possibiltà umane di migliorarsi e si afferma una possibilità alternativa. Ma al di là del messaggio che ogni serie può portare con sé e può lasciare a chi la guarda, resta il fatto che questi serial sono straordinariamente ben scritti, diretti ed interpretati, le battute e l’intreccio sono felici, spesso sottili e divertenti, la regia riesce a dare unicità e semplicità a situazioni complesse e movimento, ritmo a situazioni statiche. La povertà creativa, il rischio di imbattersi nella ripetizione e nella banalità, dunque, resta un problema dei cosiddetti film “cinematografici”, capovolgendo così, almeno per ora, i rapporti di gerarchia tra piccolo e grande schermo.