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sabato 29 dicembre 2007

Festival Tertio Millennio: un cinema senza frontiere che parla alle coscienze



La manifestazione organizzata dall’Ente dello Spettacolo e patrocinata dal Vaticano pone al centro l’uomo odierno, analizza problematiche e (dis)valori del mondo contemporaneo. Il sito cinematografo.it
di Maria Cristina Locuratolo 29 dicembre 2007 11:51

Identità e disgregazione nel mondo contemporaneo. Questo è stato il tema portante dell’undicesima edizione del Festival Tertio Millennio, organizzato a Roma dall’11 al 16 dicembre dalla Rivista del Cinematografo, dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e realizzato con il Patrocinio del Vaticano. Il festival non è stato semplicemente una rassegna cinematografica ma piuttosto un’occasione di riflessione sulla crisi dell’uomo di oggi e sulla ricerca di un senso che sia in grado di ricostruire identità frantumate, violate, minacciate dalla guerra o dalla povertà, oppure negate. Solo attraverso la memoria è possibile riappropriarsi della propria identità, riconoscerla, comprenderne le radici più profonde. Ma l’identità può diventare pericolosa quando il diritto al riconoscimento diviene pretesa di essere riconosciuti, trasformando tutto ciò che è "diverso" in una minaccia, in un nemico da debellare, in "altro" da me. Per questo è necessaria un’apertura alla pluralità, una rottura di quelle barriere culturali che possono impedire il dialogo tra popoli diversi. Questo festival ci ha presentato tutto ciò.

Obiettivo della manifestazione è stata quella di mostrare la crisi dell’uomo contemporaneo attraverso prospettive e linguaggi differenti, affrontando tematiche di grande attualità: dal dramma del Darfur al conflitto tra Russia e Cecenia, dal degrado del nostro ecosistema alla guerra in Afghanistan, al genocidio armeno. Ma anche i bimbi del Malawi su cui incombe l’incubo dell’Aids e la povertà. Parlando dell’esistenza, non si può non parlare della morte, sia quella di intere città bombardate e distrutte, che quella vissuta tra le pareti di una casa quando viene a mancare una persona cara. L’esperienza della morte irrompe nella vita di ognuno di noi, creando una frattura, uno "strappo", una perdita che provoca dolore e sofferenza, dove solo il ricordo e l’amore sopravvivono.

Un cinema a metà tra documentario e finzione che denuncia e pone punti di domanda ai quali hanno tentato di rispondere durante un Convegno di Studi organizzato all’interno della rassegna, personalità quali il regista russo Alexander Sokurov. Molto interessanti i suoi spunti di riflessione: definisce l’arte come figlia dello spirito, ma vede il cinema come un’arte imperfetta anche se in continua evoluzione. Sicuramente il cinema è la più completa delle arti perché le sintetizza tutte, dalla pittura al teatro, dalla musica alla letteratura, e quindi forse più delle altre forme d’arte è adatta a rappresentare l’uomo e la realtà nelle sue molteplici sfumature, il passato, il tempo che viviamo e forse quello che vivremo, secondo punti di vista anche contrapposti, angolazioni diverse. Lo sguardo di una nonna al fronte di una guerra, emblema di una spiritualità forte e viva, è la prospettiva attraverso la quale il regista Sokurov ci mostra il conflitto tra russi e ceceni, in una terra (la sua) martoriata da guerre. Alexandra (foto in alto a sinistra) è un film che si muove tra la vita e la morte, tra la guerra e la pace. Durante un viaggio in Cecenia, in visita al nipote ufficiale, la donna viene a contatto con gli abitanti del luogo e si rende conto che le differenze tra il suo popolo e quello nemico non sono tali da giustificare un conflitto.

Un cuore grande di Michael Winterbottom affronta il tema afgano attraverso il dramma di Mariane Pearle, a cui Angelina Jolie presta il volto, vedova dell’inviato del Wall Street Journal, sequestrato e barbaramente ucciso a Karachi nel 2002. L’11ora, il documentario ambientalista realizzato da Leonardo Di Caprio, mostra l’allarmante situazione del nostro pianeta e propone soluzioni per evitare la catastrofe. Rispetto per la vita in ogni sua forma e responsabilità nei confronti del mondo in cui viviamo. La carestia e la piaga dell’Aids sono le tematiche affrontate nel documentario Piedi per Terra realizzato da Amanda Sandrelli durante un suo viaggio in Malawi, dove incontra il piccolo Mobvutu, il bambino adottato a distanza tramite l’Ong Action Aid. Il dramma del Darfur viene documentato dalle immagini filmate da un Marine americano nel film The Devil Came on Horseback.

Rubljovska è una via di traffici mercantili, una strada che costituisce un polo di attrazione per ricchi e potenti, dai zar a Putin. La regista Irene Langmann si interroga sull’altra parte della popolazione, quella povera, e su dove essa sia stata relegata per tenerla lontana da questo microcosmo dorato. Sergio Basso ripercorre in Palestina Il Viaggio di Gesù, ma la sacralità dei luoghi che il regista filma è ora infranta, essi sono divenuti campi di guerra e terre contese tra i popoli. Anche Sergio Lo Cascio compie un viaggio nella memoria nel suo Spazio (des) Aparecidos, documentando i luoghi della dittatura argentina, allora centri di detenzione clandestina, oggi spazi per ricordare i circa trentamila argentini scomparsi. Il poeta e fotografo Armin Wegner si fa testimone del genocidio armeno per mano dei Giovani Turchi attraverso le sue foto e le lettere, documentando impietosamente il dolore e il terrore dell’Armenia nel suo The Genocide Photographer. Simcha Jacobovici compie un altro viaggio nel passato, Charging the Rhino attraverso la storia della sua famiglia e della comunità ebraica del suo paese, la Romania, in cui rievoca lo spettro del nazismo e del comunismo.

Il brasiliano Cao Guimaraes esprime il concetto della vita attraverso il peregrinare, il suo percorso nel film in Andarilho è metafora dell’esistenza umana. The Shifting City racconta con un lungo piano sequenza la Barcellona di oggi, città che secondo il regista Claudio Zulian è in rapida trasformazione.Simone Chichester parla della sua vita in Chicester’s Choice, un viaggio attraverso il Brasile alla ricerca di un padre agonizzante e senza dimora, che l’ha abbandonata da bambina ed è stato per lei e la sua famiglia causa di indelebili cicatrici dell’anima.Sguardo femminile, anche quello della regista danese Susanne Bier, che dà vita ad un dramma intenso e profondo nel film Oltre il fuoco, con Halle Berry e un bravissimo Benicio Del Toro nella parte di un eroinomane, in cui due esistenze distanti si avvicinano nel dolore reciproco e nella tragedia della morte di una persona amata, a riprova del fatto, che laddove ognuno riconosce le ferite dell’altro la comunicazione, intesa nel senso più intimo in cui anche i silenzi non esprimono un vuoto ma un sovraccarico di presenza, e la speranza di una ritrovata umanità diventano possibili."Un giorno alla volta" è la battuta conclusiva dell’ultimo film del festival e sembra quasi racchiudere il senso ultimo della manifestazione: "un giorno alla volta" bisogna far fronte alla paura e al dolore, abbattere il muro della diffidenza e (in)differenza e andare, passo dopo passo, in viaggio verso "l’altro".

venerdì 30 novembre 2007

Factory Girl: tutta la verità su Andy Warhol e la sua musa.


La storia della ricca aristocratica Edie Sedgwick, icona pop dell’America anni’60, in un film a metà tra documentario e finzione

di Maria Cristina Locuratolo 30 novembre 2007 11:23

Una “povera piccola ragazza ricca” che divenne una celebrità per poco più dei quindici minuti di fama di cui parlava Andy Wahrol. Una principessa della controcultura americana dai capelli biondo platino e gli occhi marcatamente truccati, incantevole nella sua fragilità, bella e dal fascino glamour, ma destinata ad un declino rapido quanto la sua ascesa. Questo il ritratto, dai contorni un po’ sfumati, di Edie Sedgwick, icona della cultura pop, propostoci dal regista George Hickenlooper, che tra l’altro si avvale di un esclusivo materiale d’archivio per ricostruire la vita di questa “superstar”, come amava definirla il genio Warhol negli anni ’60.

Sienna Miller interpreta questa meteora dello star system: intelligente, carismatica, fuori dal comune, nervosa nei movimenti, profonda nello sguardo, come Edie ha una bellezza anticonvenzionale, è esile, e molto trendy.La città di New York fa da sfondo all’incontro tra Edie e Andy Wahrol (un oscuro Guy Pearce) che affascinato dallo stile e dalla personalità di Edie, la trasforma nella sua musa, trascinandola al centro dell’eccentrico e vibrante mondo della “factory”, la sua fabbrica creativa, il luogo dove l’artista dipingeva, girava film, intratteneva i suoi amici.

Edie diventa con estrema facilità uno di quei falsi miti creati da una cultura “usa e getta”, una dea pop idolatrata e poi presto caduta nel dimenticatoio. Warhol è l’artefice di questo nuovo modo di vedere il mondo, la sua arte non inventa ma re-inventa le cose, trasforma una faccia seria in una serie di facce, una scatola di fagioli o un fustino in un oggetto di culto, sbatte l’America in faccia all’America riproponendo all’infinito i simboli effimeri che la rappresentano, probabilmente per sopperire a quel vuoto di valori e di tradizioni culturali che la distingue dalla vecchia Europa. Ma dietro questi simboli, siano essi lattine di Coca cola o volti umani, c’è un uomo, un artista e le sue idee, idee che rivoluzionano, “eccedono”, veicolano la realtà di un’epoca o di una vicenda umana.

Edie offre tutta se stessa alla “factory” con estrema fiducia ed ingenuità; il suo corpo, il suo volto espressivo e la sua stessa vita diventano un oggetto ad uso e consumo di tutti, proprio come una scatola di Campbell Soup. Il rischio è che la sua anima diventi vuota proprio come quella scatola di latta. Neanche l’amore per la rockstar Bob Dylan, reincarnato perfettamente in Hayden Christensen, (si dice che la canzone Just like a woman parli di Edie) riuscirà a salvarla e ad allontanarla dal mondo di Andy, da cui è totalmente sopraffatta. La droga, l’alcool, il lusso, la fama accecano la piccola star proprio come i milioni di flash che la immortalano continuamente, trasportandola in un baratro senza fine.

Warhol esce malconcio da questo film, che lo ritrae come una “sanguisuga” che costruisce il suo successo sul talento di personaggi stra-ordinari come la Sedgwick che spesso, come in questo caso, hanno avuto una vita difficile segnata da violenze, morte, pazzia.Certo il merito di Warhol è stato quello di essere anni luce avanti con le idee; i suoi film sulla “povera ragazza milionaria” si possono concepire come antenati dei nostri moderni “reality show”, capovolgendone però la finalità, non esistenze comuni rese eccezionali dai riflettori ma esistenze eccezionali esaltate dall’occhio impietoso della cinepresa.

Così Edie che si sveglia, ordina caffè e succo d’arancia, si trucca, si veste, parla al telefono e racconta alla macchina da presa il suo dolore, la sua rabbia e infine la sua miseria, diviene poi un corpo inerme, abusato, deturpato da lividi, su un letto sfatto, una Venere scesa dal suo Olimpo glorioso a cui nessuno restituirà quel sorriso, ossessivamente ritratto, fotografato, filmato, che lei non è nemmeno più in grado di riconoscere. La stella del firmamento di Warhol diventa uno scarto del sistema produttivo sul quale la filosofia pop costruisce le sue basi, Edie Sedgwick “la prima It girl”, è solo una merce di scambio, e come tale si sottopone alle dure leggi del mercato, riciclabile, vendibile e come tale va rimpiazzata con un nuovo prodotto (la nuova musa di Warhol, la chanteuse Nico).

Nonostante questo, Edie resta la prediletta del “genio”, come l’artista pop amava farsi chiamare dalla ragazza; la relazione tra i due tradisce un legame che va oltre il rapporto artistico, carico di emotività e affinità intellettive, per certi versi morboso. La Sedgwick muore a soli ventotto anni a causa di una overdose, dopo una lunga permanenza nella clinica psichiatrica dove ha trascorso l’infanzia, e il suo breve matrimonio con un paziente. Andy ed Edie condividevano oltre al gusto artistico un folle desiderio di fama, probabilmente li accomunava un altrettanto folle paura della morte, a cui solo il ricordo, tanto più se immortalato e ripetuto all’inverosimile, può sopravvivere: “Mi domando se la gente si ricorderà di noi” diceva Warhol alla sua musa, “Quando saremo morti? Sì, credo che la gente parlerà di te e di come hai cambiato il modo di vedere il mondo..” ribatteva lei. “ Mi chiedo cosa diranno di te..” conclude lui. Forse solo che è stata la sua “factory girl”, una “povera piccola ragazza ricca” a cui aveva venduto l’anima in cambio dell’immortalità.

lunedì 8 ottobre 2007

Burton Attack!


Ritratto del regista più visionario e anticonformista di Hollywood, che di recente Venezia ha omaggiato con un leone alla carriera. Fantasia e creatività al servizio del cinema: ecco chi è Tim Burton. Tim Burton: biografia / Video: Tim Burton alla mostra del cinema di Venezia
di Maria Cristina Locuratolo 8 ottobre 2007 16:12

"Il leone d’oro alla carriera è l’onore più grande che io abbia mai ricevuto". "Una fantasia in un sogno strano". E sopratutto un leone alato "è più bello di un uomo nudo su una base circolare". Così il regista Tim Burton ha definito il meritato premio consegnatogli il 5 Settembre a Venezia dall’attore prediletto nonchè amico Johnny Depp. A soli 49 anni il cineasta californiano vanta una serie di successi, film divenuti dei veri e propri "cult", sopratutto tra i più giovani, che esprimono la persistenza di una poetica e di una fantasia visionaria. Un pensiero divergente, quello di Tim, messo a disposizione di un mezzo tanto potente quanto popolare come quello cinematografico, attraverso cui il regista è riuscito ad imporre la sua personale visione di guardare la realtà, entro i confini della quale, ha definito l’epoca in cui viviamo, costringendoci a considerarlo a tutti gli effetti un genio della contemporaneità.

Il mondo eccentrico e vibrante di Burton (che non a caso ha dato origine all’aggettivo "burtoniano") gravita verso la passione e la forza della narrazione, del cinema, dell’immaginario, senza fare troppe distinzioni tra questi elementi. Burton usa l’escamotage della fiaba per esplorare il mondo; trasforma la sua triste e solitaria infanzia, trascorsa in un sobborgo californiano, in un cupo mito, in cui le fantasie e i sogni dark di un bimbo incompreso diventano una straordinaria realtà atemporale, abitata da spettri bizzarri o malinconici freak dall’animo delicato e sensibile.

Il tema della morte, i sogni cimiteriali, gli outsiders, i mostri frankesteiniani, racchiusi in città crepuscolari ipermoderne o antiche dimore dal fascino europeo, danno vita al mondo gotico del regista, intriso di poesia e humour nero, sempre in bilico tra realtà e immaginazione. Non a caso Marco Muller, direttore della Mostra veneziana, parla di "fantasia al potere", motivando così il premio alla carriera ad un giovane regista come Burton, considerato da Muller un artista sognatore, in linea con gli altri autori, omaggiati da questo prestigioso riconoscimento alla carriera. Proprio l’anno scorso, Muller aveva premiato un altro cineasta visionario quale è David Lynch, e con Burton conferma la sua predilezione per un certo tipo di cinema, in grado di concretizzare in arte i sogni. "Tim Burton possiede un talento unico nell’impregnare di profondità emotiva le storie che racconta. Sa costruire paesaggi onirici di altissima visionarietà senza mai perdere nè integrità estetica, nè - tantomeno - la sua naturale vicinanza a personaggi fuori norma"; queste le parole del direttore della Mostra pochi giorni prima della premiazione.

Il "Tim Burton’s Day" è stato l’evento che ha celebrato e reso onore alla carriera di Burton in modo inaspettato. Basti pensare alla folla gremita che lo ha atteso, dalla notte prima, lungo il red carpet o ai trenta indomiti fans, tra cui la sottoscritta, che hanno trascorso una notte all’addiaccio, sotto una pioggia torrenziale, per accaparrarsi i pochissimi biglietti messi a disposizione per assistere alla cerimonia di premiazione. Oppure alla standing ovation dei giornalisti all’arrivo di Tim alla conferenza stampa, dopo l’anticipazione di 8 minuti della sua ultima attesa fatica "Sweeney Todd: the demon barber of Fleet Street" (in sala da Gennaio 2008), un horror musicale ambientato in una lugubre Londra Vittoriana che vede protagonisti Johnny Depp, attore-feticcio di Burton, alla sua sesta prova con il regista, e Helena Bonham Carter, compagna di Tim.

La storia, tratta da un musical di Stephen Sondheim, molto popolare in Inghilterra, forse derivata da una antica leggenda, forse ispirata a fatti realmente accaduti, apparsa nel lontano 1846 su un giornalaccio londinese e trasformata nel 1936 in un film muto, narra di un barbiere diabolico (ancora figure demoniache nel cinema di Burton dopo l’indimenticabile Joker di "Batman" e il clown inquietante di "Beetlejuice") che, finito giustamente in prigione placa la sua sete di vendetta col sangue, tagliando la testa, senza pietà, ai suoi sfortunati clienti. Una storia piena di vita, di morte, di amore e di vendetta; un film che forse segnerà un passo fondamentale nella carriera di Burton.

Il giorno dedicato a Tim si rivela una festa grandiosa, un affetto incredibile, che lascia senza parole lo stesso Burton accoglie il regista, la moglie Helena in evidente stato di gravidanza ma comunque bellissima nel suo abito anticonvenzionalmente di color viola, e l’amato Depp, vestito di bianco e nero per l’occasione. A vederlo dal vivo sembra davvero uno di quei personaggi esili e timidi disegnati dall’amico Tim. Entrata in Sala grande noto in galleria i posti assegnati a Burton, la Carter e Depp. L’attore e il regista al momento non ci sono, mi fermo a fissare quei posti vuoti per un pò con la speranza che arrivino. Helena mi nota, mi sorride e mi saluta, io ricambio. E’ il primo tuffo al cuore della serata. Vorrei avvicinarmi e parlarle ma la security mi costringe a prender posto.

Quando le luci sul palco si accendono, mi tremano le gambe e trattengo le lacrime a stento. Un Burton emozionato e imbarazzato, riceve il premio dalle mani di Johnny Depp; la Sala grande si riempe di applausi, dietro gli immancabili occhialoni scuri, si nota la commozione di Tim. Tutta la cerimonia è una celebrazione di amore ricambiato, l’amore di Tim per il suo pubblico, e di quest’ultimo per lui, l’amore di Depp per un regista che lo ha forgiato e per un amico eccezionale.Lo stesso Johnny tradisce una forte emozione, sembra quasi impacciato il divo Depp, gesticola, ha lo sguardo basso, gli trema la voce. L’abbraccio tra i due e poi la dichiarazione dell’attore che magnifica il lavoro del suo "maestro" mentre porge il premio a Burton: "E’ il mio regista preferito e un vero amico...vorrei sapere cosa fare con le mani adesso. E’ un grande piacere ed un onore per me far parte di questa cerimonia per rendere onore a un grande come Tim Burton. Ed è stato un grande onore partecipare ai suoi film. Avrei ancora tante cose da dire, ma è meglio che non dica più nulla, perchè ho l’impressione che non mi prenderebbe più nei suoi lungometraggi..." E’ poi lo stesso Burton ad omaggiare il suo pupillo Depp, definendolo "un attore eccezionale per la capacità di trasformarsi in molte creature diverse".

Il sodalizio tra Burton e l’attore ha inizio quando Johnny accetta di inguainarsi in una scomoda tuta di lattice nera ed infilare speciali guanti con lame a posto delle dita per interpretare "Edward Mani di Forbice", personaggio che il regista stesso considera suo "alter-ego" nonchè bellissima favola dark che consacra Depp al successo. I due insieme sono una miscela fantastica; Tim è affascinato dal carisma di Johnny che definisce "una esplosiva combinazione di sincerità, vulnerabilità, forza e sensualità" e ne fa una sua creatura. Entrambi hanno lo stesso modo di vedere "certe cose considerate normali e accettate dalla società, come completamente assurde". Insomma il loro è un vero e proprio matrimonio artistico. Vedere a pochi metri di distanza due talenti come Burton e Depp fa accapponare la pelle, scoprire poi la loro timidezza, condividere con loro la gioia e l’emozione di quel momento li fa sentire ancora più vicini a chi li ama, più di quanto si possa pensare. Assistere alla proiezione di una carrellata di immagini che significatamente sintetizzano l’opera burtoniana, sapendo cheproprio dietro di te ci sono Burton, la moglie e un attore del calibro di Johnny Depp è un’ esperienza indescrivibile quanto straordinaria.

Dopo la premiazione a deliziare il pubblico c’è l’anteprima di una scena di "Sweeney Todd", in cui un diabolico Depp, mai visto così folle e dark, riempe il grande schermo lasciandoci già prefigurare quella che sarà l’atmosfera del film. La sua figura è esile ma terribile, ha gli occhi cerchiati di nero, i capelli arruffati pressapoco come quelli di Burton ma con una folta chioma bianca. Non c’è che dire risulta perfetto nel ruolo, lo si capisce subito. A dividere la scena con lui, in uno dei momenti chiave del film, c’è Helena Bonham Carter, anche lei quanto mai oscura. I due eseguono insieme una canzone del musical cult di Broadway, e a sorpresa il pubblico scopre le eccezionali doti canore di Depp, dato che quelle della Carter erano già ben note, sua è la voce della sposa cadavere burtoniana a cui presta anche il volto. Le opere di Burton ci fanno sognare anche se spesso si esprimono attraverso un simbolismo oscuro e caricaturale, e questo perchè sono attraversate da parecchio senso dell’umorismo e un pizzico di speranza. Insomma una visione chiaroscurale della vita, le tenebre e la luce. E "Sweeney Todd", in questo senso non dovrebbe essere da meno, anzi potrebbe abbracciare il pensiero di Tim più di tutti gli altri film che lo hanno preceduto.

Quando poi nella sala ci vengono consegnati gli occhiali stereoscopici per la visione inedita in 3D di "Nightmare Before Christmas" film-manifesto realizzato da Burton ma diretto dal collega Henry Selick, si nota in sala l’espressione divertita di Tim, quando deve togliere i suoi occhiali per indossare quelli tridimensionali, scoprendo che sono praticamente identici. E’ come se per entrare nel mondo bizzarro di Tim sia necessario filtrare la realtà attraverso uno strumento magico che ci consenta di vedere il mondo a modo suo. Cala il silenzio in sala, inizia lo spettacolo. Lo stupore è tanto quando vediamo davanti a noi una zucca parlante, uno dei simboli più rappresentativi dell’opera di Burton. E’ stato proprio "Nightmare before Christmas" a portare Burton la prima volta al Lido, nel 1994. Da allora il feeling con il pubblico italiano è aumentato sempre più, fino al 2005 quando il regista mostrò in anteprima mondiale un altro lavoro realizzato in stop-motion "Corps Bride", riscuotendo anche quella volta consensi ed applausi.

Terminata la visione del film, vi è di nuovo una standing ovation; Tim ringrazia, si inchina al suo pubblico e va via mentre i titoli di coda scorrono sul grande schermo. E’ di sicuro un arrivederci a presto. Guardando qualsiasi film di Tim ci si rende conto come le storie burtoniane si intreccino su uno stesso filo conduttore che è Tim stesso; con impagabile generosità il regista ci offre dei frammenti di vite singolari, degli scenari quotidiani e surreali nel contempo, in cui è sempre possibile intravedere un eterno ragazzo, dai capelli arruffati, che vive al confine tra il reale e la fantasia, tra il tempo nostalgico della memoria e quello circolare della fiaba.

lunedì 9 luglio 2007

Le serie tv: un successo senza limiti. E il cinema sta a guardare.


Emozionano e appassionano un pubblico vasto e variegato, reclutano registi e autori dal cinema, consacrano divi, dettano mode, linguaggi, stili di vita da decenni: qual è il segreto delle serie televisive?

di Maria Cristina Locuratolo 9 luglio 2007 16:49

Dawson’s Creek. The O.C. Alias. Lost. Chi non ha mai visto almeno una puntata di queste serie in tv, alzi la mano. E gli verrà mozzata per manifesta menzogna. Che cosa spinge milioni di telespettatori a seguire questi prodotti televisivi come veri e propri cult per serate e serate? I motivi sono diversi, e per scoprirli bisogna partire dalle origini del serial televisivo. Quando si parla di “serie tv” si è soliti definirle fiction, sottolineando il carattere finzionale di un prodotto che non è certo meno “reale” di un film cinematografico o di qualsiasi altra trasmissione televisiva. Ogni puntata si configura come un “microfilm”, un universo narrativo prêt-à porter, usufruibile comodamente dalla poltrona di casa nostra, che spesso ci risucchia nel suo vortice di personaggi e situazioni, tenendoci incollati allo schermo fino all’ultimo.Le serie tv non fanno distinzioni di pubblico, ce n’è per tutti i gusti, tutte le età, utilizzano un linguaggio comprensibile a tutti, e cosa più interessante, instaurano un rapporto di fidelizzazione con lo spettatore. Mente il mondo finzionale di un film si esaurisce nell’arco all’incirca di due ore, quello delle serie tv occupa uno spazio temporale che dura puntate e puntate, stagioni, spesso anni. Le fiction esplorano mondi reali e possibili, scandagliano l’animo umano, sviluppano storie e situazioni quotidiane o immaginarie attraverso cui si instaura una vera e propria relazione tra lo spettatore e i personaggi; ci si affeziona ai protagonisti, le vicende personali del pubblico vanno di pari passo con quelle fittizie dei suoi beniamini. Le serie tv sono un fenomeno culturale e sociale: culturale perché producono cultura in un’accezione ampia del termine, e sociale perché trattano problematiche che interessano non solo l’individuo come singolo ma la collettività, quali droga, crimine, salute, status della donna.

Era il lontano 1990 quando un cineasta come David Lynch si dedicò al progetto di una serie che ha segnato un’intera generazione, Twin Peaks. I misteri insoluti di una tranquilla cittadina americana, i tormenti interiori di una giovane ragazza assassinata che conduceva una doppia vita fatta di droga, sesso e depravazione, affascinano una parte considerevole di pubblico, sopratutto adolescenti. Twin Peaks ancora oggi viene considerato una sorta di “manifesto artistico” di Lynch, a riprova del fatto che le serie tv non sono film di serie B, anzi sempre più spesso essi posseggono una forza comunicativa e una creatività di cui molte pellicole odierne sono prive.Da Twin Peaks in poi notiamo come il passaggio dalla età adolescenziale a quella adulta, il trauma della crescita, interiore e fisica, sia un tema ricorrente nelle fiction seriali, basti pensare a Beverly Hills 90210 , Dawson’s Creek e il più recente The O.C., in cui i personaggi, tutti giovanissimi, si trovano a dover fare i conti con le prime esperienze “da grandi” e cercano una loro collocazione nel mondo, attivando meccanismi di identificazione e proiezione molto forti con i telespettatori che appartengono a quella fascia d’età. Così accade che serie tv diventano oggetti, o meglio, prodotti “di culto”; essi sono l’emblema di una generazione, ne interpretano i gusti, dettano le mode, affrontano problematiche familiari, sessuali, sentimentali adeguandosi al tempo che passa, ponendosi come specchio di una società che cambia rapidamente, che si reinventa continuamente.

J.J Abrams è invece il caso del momento: regista e soggettista statunitense, approdato in tv con la serie Felicity, raccoglie consensi e premi con il telefim Alias fino al successo planetario di Lost, vero e proprio fenomeno televisivo del 2006. E’ proprio vedendo gli episodi di Alias che Tom Cruise resta colpito da Abrams tanto da affidargli la regia del terzo capitolo di Mission Impossible, in cui sono ben visibili le traccie autoriali di questo giovane regista. Lost è un serial televisivo di avventura/thriller prodotto a partire dal 2004, ambientato su una misteriosa isola tropicale in cui si ritrovano i sopravvissuti di un incidente aereo. Ogni superstite ha una vita singolare, una storia al di fuori dell’ordinario a ciascuna delle quali l’autore dedica un intero episodio, permettendo allo spettatore di entrare nell’intimità di ognuno dei personaggi. E’ il mistero, ancora una volta, ad attrarre e ad ammaliare lo spettatore, ad indurlo a seguire, puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, questa serie televisiva. Ma quali sono gli ingredienti che hanno fatto di Lost un successo mondiale? Prima di tutto questo serial presenta un’originalità nei contenuti, è realizzata molto bene visivamente, ha un ritmo narrativo avvincente, crea suspence nello spettatore e ha una location che, non solo, in molte occasioni, determina lo sviluppo narrativo ma conferisce alle vicende dei personaggi un valore aggiunto.

Una grande ricchezza creativa, dunque, caratterizza i film tv a differenza delle opere cinematografiche attuali. Ne è una prova il fatto che autori, ormai privi di idee, ci ripropongono al cinema, rivisitazioni di telefilm cult anni’70-80: ne sono un esempio le Charlie’s Angels, Starsky and Hutch, Miami Vice, ecc. Proprio a causa della carenza di idee, il cinema sta diventando un riciclatore onnivoro, prende quel che può da tv, fumetti, persino da figurine e giocattoli (basti pensare a Tranformers, in sala in questi giorni), mentre la televisione continua a creare e a sfornare storie e divi. Lo stesso George Clooney deve la sua fortuna alla imitatissima serie E.R., dando il via a una serie di cloni televisivi in camice bianco che tentano di emulare il fascino del medico più amato della tv. Non è piu l’avvocato (Practice, Ally MacBeal) ma il medico, dunque, ad attirare l’attenzione del pubblico, sopratutto quello femminile. E così tra le corsie di ospedali immaginari si svolgono le vicende di Doctor House, Grey’s Anatomy, Nip/tuck. Gli autori fanno leva sulle paure più profonde dell’essere umano, quali la morte, la malattia e creano personaggi dalla funzione salvifica, magari un po’ cinici come Doctor House ("Sono diventato medico per curare le malattie, non i malati) ma eccellenti sotto l’aspetto professionale").

Ad un altro filone appartengono i telefilm fantascientifici quali il famosissimo Star Trek e Roswell oppure quelli in cui l’elemento magico e sovrannaturale è preponderante come Streghe o la simpatica Buffy L’AmazzaVampiri. Ci sono poi altre storie, più umane, universi femminili formato tv, così reali eppure così misteriosi per la complessità che li caratterizza, raccontati attraverso serial quali Sex and City e Desperate Housewives. Qui non si parla più di adolescenti angosciati, primi batticuori, college e università, ma di donne che hanno superato la soglia dei trenta, e vivono la loro dimensione nella società e il loro ruolo all’interno della famiglia o del mondo del lavoro. C’è tanta verità nelle loro vite, contraddistinte da autoironia e un pizzico di cinismo che non guasta. Il contesto può essere quello metropolitano di una città come New York o quello apparentemente perfetto e tranquillo della provincia, con le sue casette ben allineate e i giardini curati ma le storie, in ogni caso, sono autentiche e coraggiose perchè affrontano la realtà della donna senza maschere o ipocrisie. Certo il primo è più modaiolo e trasgressivo, l’altro più concentrato su quello che accade tra le pareti domestiche, ma entrambi toccano trasversalmente più generi, dalla commedia al dramma,dal giallo alla satira, fino alla soap-opera.

L’ultima novità al femminile è Ugly Betty, la protagonista, una vera e propria “cozza” con tanto di apparecchio per i denti e occhialoni, irrompe nelle nostre case con la sua sorprendente bruttezza ed ironia, stravolgendo i canoni estetici tradizionali e, contrariamente a quanto si possa pensare, “buca” lo schermo, affascina lo spettatore, piace. La serie è ispirata alla telenovelas colombiana "Betty la fea" andata in onda su Happy Channel dal 5 luglio 2004 al 24 febbraio 2005. Il format è stato declinato in oltre 70 paesi del mondo ed è diventato un fenomeno di successo già dalle prime puntate. Il personaggio di Betty è un paradosso vivente, lavora nel mondo della moda, è l’assistente personale del capo di uno dei magazine più famosi, veste malissimo, si muove in un mondo dominato dalle leggi dell’apparenza e dell’immagine e lei è uno sgorbio umano. Betty ha tutte le caratteristiche dell’eroina, è sicura di sé, e riesce a farsi strada nel lavoro nonostante il suo aspetto sgradevole, insomma è intelligente ed ha personalità. La serie si colloca a metà tra il “serio e faceto”, diverte ma non è comica a tutti i costi.

Un altro ibrido molto interessante è il telefilm Friends (che ha decretato il successo di Jennifer Aniston): a metà tra sit-com americana e soap-opera, questa serie non solo diverte il pubblico ma lo fa appassionare alle vicende dei protagonisti. Friends ci racconta storie di personaggi nei guai fino al collo, guai apparentemente senza soluzione, che fanno continuamente scelte sbagliate, non sono in grado di gestire le loro esistenze, e fanno e subiscono torti ma nonostante tutto sono allegri e contenti, e questo in virtù del fatto che sono amici, Friends appunto. Come dire si prende atto della sfiducia nei confronti delle possibiltà umane di migliorarsi e si afferma una possibilità alternativa. Ma al di là del messaggio che ogni serie può portare con sé e può lasciare a chi la guarda, resta il fatto che questi serial sono straordinariamente ben scritti, diretti ed interpretati, le battute e l’intreccio sono felici, spesso sottili e divertenti, la regia riesce a dare unicità e semplicità a situazioni complesse e movimento, ritmo a situazioni statiche. La povertà creativa, il rischio di imbattersi nella ripetizione e nella banalità, dunque, resta un problema dei cosiddetti film “cinematografici”, capovolgendo così, almeno per ora, i rapporti di gerarchia tra piccolo e grande schermo.

domenica 17 giugno 2007

Spaghetti western, "Grindhouse", cinema italiano: Quentin Tarantino si scatena a Cannes


Dura critica del regista americano al nostro cinema attuale, definito “scadente e privo di idee”. Tutto questo mentre nelle sale italiane esce il nuovo film Grindhouse, omaggio ai B-movies, i film “di serie B” degli anni ’70. Quentin Tarantino: la scheda / il trailer di Grindhouse

di Maria Cristina Locuratolo 17 giugno 2007 22:56

Se qualcuno chiedesse al regista americano Quentin Tarantino, autore di film cult come Pulp Fiction e Kill Bill, cosa ne pensa del cinema italiano di oggi, la risposta sarebbe una sola, netta e inequivocabile: “scadente”. Questo è in effetti il giudizio espresso dal regista, durante il Festival di Cannes appena conclusosi, sulla produzione cinematografica italiana di questi ultimi anni. Un giudizio che - come ovvio - ha suscitato non poche polemiche, soprattutto perché espresso da uno dei più grandi estimatori del cinema italiano del passato.

Tarantino, il più grande fan degli "spaghetti western" e delle commedie italiane anni ’50, ‘60, ‘70, ha infatti ripreso e riformulato in molteplici vie questi generi, rendendoli elementi portanti del suo percorso estetico e stilistico. In ogni suo capolavoro, in ogni sua opera c’è un po’ di cinema italiano. Fa dunque un po’ di impressione che quello che da molti è definito uno dei più grandi registi dei nostri tempi si trovi a constatare con amarezza e nostalgia una situazione precaria per il nostro cinema. Del resto, come dargli torto? La maggior parte dei film italiani rispondono ad esigenze meramente commerciali, sono legati alla pubblicità e alla possibilità (o meno) di essere trasmessi in TV.

Si passa con disinvoltura dal cinepanettone al drammone familiare, dalle storie di trentenni in crisi d’identità ai film dalla comicità insulsa e spesso volgare. Le sceneggiature sono spesso deboli, i veri attori scarseggiano, si prelevano star e starlette dai reality e dalle fiction, il "piccolo schermo" approda al "grande schermo" con risultati incerti. In realtà esiste anche un cinema italiano "di qualità", ma in percentuale senza dubbio minore rispetto al passato; si avverte una certa nostalgia per i tempi d’oro del nostro cinema. Ci mancano Fellini, De Sica, Mastroianni, ci manca "il principe della risata" Antonio De Curtis, in arte Totò. Ci mancano la genuinità e la genialità, la poesia. E a Tarantino probabilmente manca Sergio Leone, uno dei suoi miti ispiratori. Detto questo, è bene specificare che Tarantino non si trovava al festival per criticare il cinema italiano, ma per parlare della sua ultima fatica: Grindhouse-Death Proof, film per il quale il regista statunitense ha tratto ispirazione dal genere dell’"exploitation" cioè dalle pellicole di serie B in cui donne violente lottano per il potere, riproponendoci una vendetta tutta al femminile, sulla scia di Kill Bill.

Inizialmente il film era composto da due episodi distinti, uno dei quali dal titolo Planet Terror, diretto dal regista Robert Rodriguez, ma l’insuccesso registrato ai botteghini statunitensi ha portato i due registi ad una immediata separazione. Sdoppiatosi per le sale cinematografiche europee, Grindhouse ha così perso, in parte, la sua ragion d’essere: il film, infatti, voleva essere un omaggio alle sale cinematografiche americane degli anni ’70, le cosiddette "grindhouses", dove lo spettatore poteva vedere due film, dai contenuti volgari e cruenti, al prezzo di un solo biglietto. Ma a quanto pare il pubblico americano è rimasto fedele ai propri gusti: questa formula da "cinema a basso costo" era disprezzata allora e oggi continua a non raccogliere consensi a distanza di trent’anni.

Il film narra la storia di uno psicopatico stuntman affetto da misoginia, Mike (Kurt Russel), che invita tre allegre scatenate fanciulle sulla sua coupé "a prova di morte". Obiettivo di questo folle, inquietante e losco personaggio è quello di uccidere le ragazze, spaccargli il cranio contro il parabrezza della sua sfrecciante arma letale, terribile macchina della morte con tanto di teschio sul cofano. L’ora della vendetta per il killer stuntman arriva ben presto e si tinge di rosa: quattro ragazze agguerrite decidono di ricambiare il muscoloso misogino con la stessa "moneta", vendicando le vittime della sua Chevrolet.

Il risultato è un film visivamente perfetto, in puro stile tarantiniano; un’avventura vertiginosa tutta al femminile, una assurda storia di omicidi automobilistici, discorsi sboccati e verbosi, sangue e morte. Tarantino omaggia i B-movie, confezionando una pellicola in cui i colori e i salti di fotogramma sembrano quelli di un vecchio film anni’ 70. Esercizi di stile, esplosioni di violenza, sequenze adrenaliniche forse un po’ troppo lunghe con inquadrature "fetish": Grindhouse si configura come un’altra eccellente "prova d’autore", che senza dubbio, nella nuova versione allungata, privata dalla mediocre opera di Rodriguez, entusiasmerà pubblico e critica, a dispetto del flop americano.
E mentre i produttori contano gli incassi di Grindhouse al botteghino, Tarantino pensa già al suo prossimo lavoro: si chiama Inglorious Bastard, il titolo è già un programma, e la storia si rifà, stando a quel che ha affermato il regista, ai vecchi "western all’italiana", la sua unica vera passione. Anche se a volte lo critica, il cinema italiano Tarantino ce l’ha nel cuore, sempre e comunque.