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sabato 23 febbraio 2008

Cloverfield: attacco a New York


Un horror fantascientifico girato come un video amatoriale; un "disaster movie" in cui cinque giovani newyorkesi restano coinvolti in un attacco alla città perpetrato da un mostro gigantesco e misterioso. 85 minuti da togliere il fiato.
di Maria Cristina Locuratolo 23 febbraio 2008 13:48

L’ombra apocalittica dell’11 Settembre può assumere moltiplici sembianze. Anche quelle di un mostro che sembra la reincarnazione di Godzilla, terrificante ed oscuro, che si muove su New York come un gigantesco ragno e genera altri mostriciattoli che sbucano dal sottosuolo come topi affamati, creature figlie della mitologia e delle paure dell’uomo contemporaneo. J.J Abrams, creatore di successi come Lost e Alias, è l’artefice del "disaster movie" Cloverfield che si prefigge di mostrare con realismo l’irreale attraverso l’occhio impietoso e spaventato di una camera a mano che non tutto può vedere ma che resta sempre accesa, segue la paura, la filma, documenta l’inimmaginabile.

All’inizio del film una didascalia avvisa che le immagini che seguono sono state ritrovate a Cloverfield, zona nota come Central Park a New York. Il pretesto narrativo che giustifica la presenza di una telecamera digitale riprendente l’accaduto è un party organizzato da un gruppo di ragazzi che festeggiano la partenza di un amico per il Giappone. Appena il tempo di conoscere i partecipanti della festa e poi un black-out improvviso, nel buio un boato che sembra un terremoto.

Un’esplosione nel cuore della città, a Manhattan, il crollo inspiegabile di un grattacielo; i ragazzi corrono per strada, intravedono la sagoma di un terrificante e misterioso mostro mentre la testa gigantesca della Statua della Libertà, emblema della Grande Mela, rotola per le vie del centro schiacciando tutto. Sul fiume Hudson campeggia il simbolo della libertà decapitata, il panico induce gli abitanti della città sotto assedio a cercare vie di fuga ma nessun posto è sicuro. Così inizia una folle e confusa corsa sul ponte di Brooklyn che però crolla inesorabilmente dopo un colpo di coda della mostruosa creatura.

La telecamera digitale è testimone di tutto questo, il suo riprendere inesperto è invece abilmente studiato dal regista Matt Reeves, così come i frequenti flashback e forward sono giustificati dalla precedente registrazione sul nastro di un video amatoriale. Il resto del film mostra il disperato tentativo dei ragazzi superstiti di salvare una loro amica rimasta intrappolata sotto le macerie del suo appartamento situato proprio nel centro di New York ovvero dove il mostro ha attaccato la città.

Si potrebbe leggere Cloverfield come una metafora del terrorismo, piaga del nostro tempo; le immagini dell’attacco a New York nel film richiamano alla memoria quelle dell’11 Settembre, sono immagini che tuttavia non svelano niente, non danno risposte, lasciano insoluto il mistero di una minaccia che c’è, è incombente ma di cui non si sa niente o molto poco e per questo fa ancora più paura. Il mostro in Cloverfield non ha un’identità ben definita: spaventa, uccide, si sa solo questo. Si muove al buio come una piovra o come un ragno, tesse una ragnatela di morte e terrore e i figli che genera agiscono come lui nell’ombra, eppure sono lì pronti ad attaccare con ferocia, spuntano dalle viscere della terra per mangiare esseri umani. Chi viene a contatto con queste oscure creature muore, se si viene solo morsi si è destinati a scoppiare come un kamikaze.

Ma le analogie con l’attacco alle Twin Towers e i punti di contatto con il terrorismo sono solo una chiave di lettura del film che, forse, molto più semplicemente nasce dalle suggestioni di J.J.Abrams in seguito ad un suo viaggio in Giappone, in cui si è dilettato a girare per negozi di giocattoli sulla scia di Godzilla e Gamera, leggendari mostri orientali che fanno parte dell’immaginario collettivo. Oppure si può banalmente ridurre Cloverfield ad una abile strategia di marketing, messa in atto soprattutto tramite internet. In rete, infatti, si è creato il fitto mistero sul film, attraverso i trailers inquietanti, gli indizi sulla trama, le teorie sulle sembianze e la natura del mostro. Un gioco che i produttori hanno diretto con maestria, attenti a non scoprire troppo le loro carte ma forse caricando troppo di aspettative l’eventuale spettatore.

In ogni caso Cloverfield ha il merito di essere una pellicola innovativa, che potrebbe inaugurare un nuovo genere di horror, non più basato su sangue e scene "splatter", ma sulla paura, quella più pura e primordiale e sull’immedesimazione che è possibile quando si conferisce alle immagini un certo realismo, senza dover provocare a tutti i costi disgusto, e quando gli attori non sono volti noti ma persone comuni, come tante altre. Il finale non risolutorio continua a tener viva la tensione e a catalizzare l’attenzione degli spettatori e, se non fosse solo lo spunto per realizzare dei sequel, potrebbe assicurare a Cloverfield un piccolo spazio nella storia del cinema come un film che ha centrato in pieno l’idea della paura, lasciandoci all’oscuro, senza nessuna verità o perchè, negandoci l’identità di una minaccia mostruosa che trae forza proprio dal suo essere ignota.

mercoledì 6 febbraio 2008

Sweeney Todd : the Demon Barber of Fleet Street. Questa volta Burton non perdona


Dai palchi di Broadway al grande schermo: la leggenda inglese sul barbiere tagliagole entra nell’universo delle favole dark di Tim Burton. A Roma per la rassegna "Viaggio nel cinema americano" ha raccontato il suo ultimo lavoro e le sue precedenti pellicole.

di Maria Cristina Locuratolo 6 febbraio 2008 15:48

Il mondo gotico di Tim Burton si tinge di rosso. Una macabra leggenda londinese è il soggetto del suo nuovo attesissimo film, il suo primo musical-horror, Sweeney Todd: the demon barber of Fleet Street. A sorpresa, ad anticiparne l’uscita in Italia il 22 febbraio, è tornato a Roma Tim Burton. Il regista ha incontrato la mattina del 23 Gennaio la stampa presso l’Hotel Hassler e la sera il suo affezionatissimo pubblico all’Auditorium Parco della Musica per inaugurare una serie di incontri dal titolo "Viaggio nel cinema americano", a cura di Mario Sesti e Antonio Monda. Il film, dark e sanguinolento, si ispira al genere del grand guignol ed è basato su una urban legend ottocentesca secondo cui Sweeney Todd, un provetto barbiere assassino assetato di sangue e vendetta, avrebbe tagliato la gola a circa 160 malcapitati clienti per farne poi dei deliziosi pasticci di carne da vendere a prezzi stracciati. Complice del barbiere-killer in questo diabolico piano è la vedova Lovett (Helena Bonham Carter) cuoca fedele e ossessiva con tanto di tritacarne e forno per preparare i tortini. La vicenda rientra perfettamente nella tradizione delle leggende metropolitane inglesi. E’ infatti cruda e macabra, ricorda molto Jack lo squartatore, personaggio tra l’altro interpretato da Depp nel film dei fratelli Hughes. La storia di Sweeney, dopo aver ispirato cinema e prosa, è stata consacrata al successo grazie al pluripremiato musical teatrale del 1979 di Stephen Sondheim a Broadway: "Quando ho visto la pièce teatrale - dice Burton - mi ha affascinato per la sua commistione di horror ed umorismo e per la bellezza della storia. Come se Edward Scissorhands fosse diventato depresso. Il protagonista è di una pervertita purezza: un cattivo diabolico e al contempo tragico". L’accostamento Edward-Sweeney non è casuale. Entrambi si servono di lame ma questo strumento di morte viene utilizzato in due modi opposti: il primo infatti crea mentre il secondo distrugge.

In realtà il musical aveva colpito Tim già ben cinque anni fa, quando lui, allora senza una ragione precisa, fece ascoltare a Johnny Depp la colonna sonora dell’opera teatrale. Quando poi telefonò Johnny chiedendogli se era il caso di provare a realizzare qualcosa, l’attore accettò, pur conoscendo le difficoltà cui sarebbe andato incontro non essendo un cantante. "Johnny ha una qualità straordinaria, che è quella di mettersi costantemente alla prova, sempre pronto a nuove sfide". La prova di Depp è stata eccellente, anche perché come lo stesso Burton ha dichiarato, il film non necessitava di un cantante professionista ma di un attore che interpretasse le canzoni, che esprimesse tutta la tragicità della vita e del personaggio di Sweeney. La musica, per la prima volta nei suoi film, compenetra nella narrazione, intesse la storia dove convivono comicità e dramma, in pieno stile burtoniano "L’idea di far esprimere personaggi tanto chiusi con la musica mi allettava molto. Rispetto al musical di Sondheim, ho eliminato i cori e i balli in strada: cantano solo i protagonisti, come fosse un film muto accompagnato dalla musica. Del resto con Johnny condivido l’amore per i vecchi horror, le produzioni Hammer o Mario Bava, e per attori vecchio stile, da Peter Lorre a Boris Karloff, capaci di parlare con gli occhi".

Burton ha trovato la storia molto attuale, ma nega ogni legame con la realtà odierna: "affronto i film a livello subconscio, simbolico e non letterale, anche se queste cose aleggiano attorno a noi, basta leggere un giornale o guardare un tg. Ma per lavorare in superficie, ci sono registi migliori di me. Per me Sweeney Todd è una favola, e come tutte le favole attingono alle emozioni umane, resistono ai secoli, hanno sempre plurimi contatti simbolici ed emblematici con la contemporaneità. Eat or be eaten, un concetto molto americano". La modernità del film è da ricercarsi nel rapporto tra i due personaggi, Sweeney e Mr Lovett: "una non comunicazione nella vicinanza, oggi molto frequente nelle relazioni umane". L’eroe burtoniano, in questo film, non è però portatore di valori positivi come gli altri che lo hanno preceduto, ma è un dannato dominato solo dalla vendetta e l’omicidio diventa per lui uno strumento per perseguire quella giustizia negata e pareggiare i conti con un destino crudele. Infatti la tag-line sulla locandina del musical non lascia spazio a dubbi su quello che sarà il monito del film: Never forget. Never forgive (Mai dimenticare. Mai Perdonare), frase di sicuro effetto, sopratutto se letta nella sua lingua originale dove l’allitterazione ne amplifica il senso.

Parlando del personaggio di Sweeney, Tim ha detto: "la vendetta è qualcosa di sgradevole ma riguarda tutti noi e la sua forma più estrema è quando uno Stato la cerca su un altro". La visione di Burton si fa meno incline a quella speranza che era sempre possibile intravedere nelle sue opere e nei suoi eroi dall’animo delicato e sensibile. "Progressivamente le cose si sono fatte più interiorizzate e complicate. Forse sono più dark ma cerco sempre di metterci humour. Ne ho parlato anche con Johnny (Depp): forse 10 anni fa sarebbe stato un film diverso, oggi siamo più malinconici, avvertiamo un senso di perdita, anche quando le cose vanno bene". E per Tim le cose vanno benissimo. Accolto con un’ovazione da una folla gremita all’Auditorium, Burton ha ripercorso con il suo pubblico le tappe della carriera, dagli esordi di Edward mani di forbice, film che occupa un posto privilegiato nel suo cuore alla sua ultima fatica. Tim ha ribadito il legame personale che intercorre tra lui ed il personaggio di Edward, che si configura come il suo alter ego cinematografico, anche se, come dice con il suo immancabile humour, ha voluto dargli un volto più carino del suo ed è per questo che ha scelto Johnny Depp. Al pubblico romano è stata riproposta una scena di Batman, film in cui il regista riesce abilmente a conciliare le esigenze commerciali con un prodotto di qualità che torna alle vere origini del fumetto.

Burton ha anche parlato di Mars Attack!, pellicola che prende spunto da un prodotto di massa come le figurine, ma da cui parte una riflessione sulla situazione politica americana che fa sentire Tim un po’ come i marziani del suo film, disorientati e confusi in un mondo alienante. Il regista ha rivisto una scena del film Ed Wood, opera che lui ha dedicato al "regista peggiore del mondo" per analizzare il filo sottile tra successo e fallimento e osservato con emozione una scena di quello che è stato considerato il suo capolavoro, Big Fish. Film Surreale e poetico in cui Tim ci accompagna in un viaggio tra sogno e realtà, vero e verosimile, sospende la nostra incredulità e ci invita ad andare oltre le apparenze per scoprire cosa si cela "dietro", in profondità. Infine il regista si è messo a disposizione del pubblico e della stampa, rispondendo alle domande, ma per scaramanzia non ha detto nulla sul suo nuovo progetto in 3D (Alice in Wonderland), anche perché ancora troppo immerso nelle atmosfere cupe di Sweeney Tood. Tim, creativo folletto visionario senza età, sembra davvero provenire da un’altra lontana, magica dimensione. Ogni incontro con lui è speciale, lascia un segno indelebile, e non solo in quanto artista geniale capace di costruire mondi fantastici con la propria arte. Ma soprattutto perché è un uomo dotato di cuore, sensibilità ed umiltà, interessato a percorrere vie sempre nuove, per sentieri ai più sconosciuti, verso gli abissi e i sogni dell’intricato animo umano.