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venerdì 21 maggio 2010

Cristina's Big Adventure in Cannes




Yes We Cannes. Di sicuro non lo possono asserire tutti con convizione. Sì, perché Cannes nel suo tourbillon di star mondiali e abiti d'haute couture, di limousine e yacht chilometrici, di modelle anoressiche e signore ingioiellate avvolte in stole di pelliccia, non è per tutti, o meglio, non è per chiunque. Si respira profumo Chanel n.5 nell'aria, gli occhi sbrilluccicano alla vista di cotanto lusso e glamour, tra hotel a cinque stelle e le vetrine più belle del mondo con manichini dorati (o d'oro?) e vestiti che vanno dai 5 mila euro in su. A Cannes ci sono i divi, i ricconi d'alta società alla Paris Hilton, giusto per intenderci, e poi c'è tutto il resto, “ le peuple”. L'éprit de grandeur francese del festival “cannois” incombe sul comune mortale come la nube del vulcano Eyafjallajokul .
Nulla a che vedere con lo spirito vacanziero della mostra veneziana in cui può capitare passeggiando di trovarsi faccia a faccia con Quentin Tarantino, vedere Ewan McGregor salire sul battello e Jude Law fare colazione al Des Bains. Nulla di tutto questo. Io che a Cannes ero in veste “ufficiosa” più che ufficiale e con una missione non proprio segretissima e alquanto impossibile, ossia incontrare Tim Burton,”Monsieur le Président”, ho avvertito tutta l'ostilità e l'inconsistenza di questo circo stellare, composto da divi, star e starlette, produttori e pseudo-produttori, attricette in vetrina, imprenditori milionari ed escort di turno. I film, che dovrebbero essere il fulcro dell'evento cinematografico più prestigioso, sembrano quasi far da contorno ai vari Monteé des Marches, parties esclusivi, aste di beneficienza e compleanni blindatissimi di femmes fatales come Naomi Campbell e Vanessa Paradis. Ognuno deve fare il suo spettacolo, avere i propri quindici minuti di fama, bagnarsi con la pioggia di flash per soddisfare la vanagloriosa esigenza di “esserci a tutti i costi”, anche se non si sa bene a fare cosa. E io che invece un obiettivo, seppur folle, ce l'avevo, mi son data da fare sin dal primo giorno.
Mi sono posizionata per 12 ore con una sedia davanti al Palais, come gli habitués del festival son soliti fare, per attendere “le tapis rouge”, e lui, Tim Burton ( nome che i francesi si ostinano insolentemente a pronunciare col proprio accento!). Dodici ore sotto un sole cocente mentre bizzarrie di ogni sorta capitavano sotto i miei occhi: Charlie Chaplin resuscitati, sexy Avatar, Supereroi, un vecchio che voleva suonare la Marsigliese urtando la sensibilità della polizia.
Dodici interminabili ore in cui mi è successo di tutto: mi hanno accusato a torto di aver rubato la sedia su cui ero seduta, sono stata fermata in malo modo dalla “gendarmerie” perché nel momento in cui mi ero allontanata per andare alla toilette avevano chiuso le transenne e di conseguenza sono caduta in modo memorabile per attraversarle, mi hanno intervistato e fotografato, e non ultimo, mi sono ustionata! Tutto questo per pochi, evanescenti istanti di Tim che scende dall'auto, insolitamente pettinato e vestito in modo impeccabile. Ma la cosa di cui meno vado fiera e che le donne di tutto il pianeta non mi perdoneranno è aver rifiutato l'autografo di quell' esemplare unico di maschio latino che è Benicio Del Toro. Eh sì, perché quando lui si è avvicinato io avevo in mano il primo libro scritto da Tim (The Melancholy Death of Oyster Boy ) in mano e di certo la firma di Benicio lì sopra non era appropriata. E così dopo avergli negato il libro, gli ho semplicemente stretto la mano e lui incredulo mi ha fissato con la sua aria assonnata da bad boy. Epici momenti.
Delusa e affranta, dopo varie alzatacce alle 6 di mattina per tentare di beccare Mr. Burton uscire dall'Hotel Carlton, dove risiedeva, decido, mio malgrado, di preparare la valigia e tornare in Italie.
Il giorno della mia partenza ricevo a sorpresa una telefonata: un'amica mi aveva procurato un'invitation. Eh sì, perché per vedere i film in concorso al Grand Théâthre Lumière, dove solitamente vi è la Giuria del festival, occorre un invito speciale. Un invito che è vietato vendere o comprare e che molti cercano di procurarsi piazzandosi davanti al Palais, dalla mattina con abito da sera o smoking, pregando che qualche invitato abbia un biglietto in più da regalare con estrema generosità. Il film per cui avevo ottenuto l'ambita invitation era un'opera africana, L'homme qui crie: la probabilità che Tim ci fosse era del 50%. E così cerco un posto strategico e col binocolo monitoro l'entrata delle “personnalités”: ad un certo punto nelle lenti del mio binocolo compare lui, il “mio” Tim che noncurante dell'etichetta sorseggia un caffé in un bicchierino da take away.
Inutile dire che il mio tentativo di avvicinarmi a lui fallisce miseramente. Ma, al termine della proiezione, di cui sinceramente dico di non aver capito nulla per l'emozione, con molta nonchalance mi dirigo verso Tim. Lui è attorniato da bodyguards e fans giapponesi, ma seppur incredula e tachicardica riesco a farmi firmare il suo libro sul Bambino Ostrica. Era proprio lì, davanti a me, più alto di come lo immaginavo, con la sua giacca gessata oversize, una montagna di capelli ribelli, un viso picassiano. Sembrava uscito da uno dei suoi disegni, un cartoon solo in carne ed ossa, Edward Scissorhands solo senza forbici per mani. Riesco a fermarlo e a recapitargli un messaggio scritto per lui: «Tim, a letter for you», lui prende la lettera e si volta per guardarmi in faccia. Mi sorride e mi dice «Thank you», con un fare gentile che da solo basta a rivelare la bellezza e l'umanità di chi lo possiede. Come se fosse la cosa più inaspettata del mondo ha accolto il mio messaggio, il suo sorriso mi ha comunicato stupore e gratitudine, ricambiando e rafforzando l'amore e la devozione per il grande, geniale cineasta qual è, e per l'uomo straordinario che si cela dietro di esso.

domenica 2 maggio 2010

Agora


Cosmo in greco non vuol dire grande, né infinito, né meraviglioso. Vuol dire ordine. Un ordine ben rappresentato dalle stelle così dette “erranti” che in realtà seguivano delle traiettorie ben definite per rioccupare periodicamente la stessa posizione in cielo rispetto alle stelle propriamente dette e considerate "fisse". Un ordine che noi umani non siamo in grado di seguire con i nostri moti imperfetti di animo e di pensiero, con le nostre esistenze “erranti”, infinitamente piccole e insignificanti paragonati alla grandezza dell'universo. Il regista spagnolo Alejandro Amenabar in Agora si muove su questi due livelli: terra e cielo.

Da un lato ripercorre le vicende storiche di Alessandria d'Egitto del 391 dopo Cristo tra le insurrezioni dei cristiani prima contro i pagani e poi contro gli ebrei, dall'altro segue le scoperte della scienza custodite gelosamente nel tempio del sapere, la biblioteca della città.

A fare da fil rouge tra terra e cielo vi è la storia di una giovane scienziata, Ipazia, ultimo baluardo di un mondo pagano che si affida alla ragione, all'ordine del pensiero, ad una umanità laica nel quale la pietas non è l'attributo di un'entità superiore, ma un elemento imprescindibile dell'essere umano in quanto tale. Ipazia, incarnata nella bellezza giunonica e senza fronzoli di Rachel Weisz, rappresenta l'estremo tentativo di riconciliare le opposizioni sotto un cielo unito e perfetto, imperscrutabile e perenne. E' simbolo di un'epoca in agora2decadenza che il regista ci racconta attraverso i fasti di mosaici, colonne, affresci ormai in declino, tra le folle deliranti in cui ognuno uccide il proprio fratello in nome di una religione che predica amore e perdono. Le urla di dolore e di morte si propagano tra le stelle, diventano un'eco perso nel tempo e nello spazio che possiamo udire ancora oggi perché la Storia, proprio come le stelle erranti, segue un percorso circolare, in cui cambiano gli scenari della medesima condizione umana regolata dalla legge di sopraffazione e dall'istinto di sopravvivenza. Ipazia è emblema di un'umanità e di una femminilità nuova , condottiera fino all'ultimo con le sole armi del sapere, della libertà e del perdono, si consacra a quel cielo che resta lo stesso, unito e perfetto, anche nel caos e nella disperazione. Contesa tra l'amore del suo schiavo e quello di uno dei suoi consiglieri che poi diverrà prefetto, la scienziata sarà vittima della setta cristiana dei parabolani e del vescovo Cirillo. Amenabar decide di non rappresentare la violenza e la crudeltà dell'uccisione di Ipazia torturata seviziata e lapidata dai cristiani. Nonostante le tematiche forti del film il regista mantiene sempre un distacco, una freddezza, privilegiando la teatralità della rappresentazione, dalle ambientazioni alla scelta dei costumi. Sceglie di filtrare la Storia attraverso lo sguardo lucido e sapiente di Ipazia, le panoramiche sulla città e nelle ampie inquadrature del cosmo, dellla terra, di quel cielo a cui Ipazia ha dedicato un'intera vita e sotto il quale, nonostante il tempo sia passato, non siamo mai cambiati.

I cattivi del cinema in libreria


Bad Boys - La figura del Cattivo nell'immaginario cinematografico è un libro edito da Morpheo Edizioni, scritto da Marcello Gagliani Caputo, Sergio Gualandi e Andrea Salacone. Partendo dall'assunto hitchcockiano secondo il quale "più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film", i tre autori esplorano l'universo dei cosidetti cattivi nell'immaginario cinematografico, tracciando un fil rouge che parte dal cinema muto e ci conduce fino ai giorni nostri.

Chi sono i cattivi del cinema? E sopratutto perché il cinema ha bisogno dei "villains", dei cattivi di turno? Semplice, non solo perché essi costituiscono, insieme all'eroe o al protagonista, il perno della narrazione, ma perché rappresentano le nostre paure più profonde, o anche perché no, il nostro desiderio di ribellione e trasgressione. I cattivi non si dimenticano, tracciano un solco profondo nella nostra memoria, si insinuano nella nostra fantasia, ci risucchiano nel loro vortice di follia e straordinarietà. Il cinema attinge a piene mani ai miti, alle leggende popolari, a opere letterarie di grande valore e ci restituisce personaggi universalmente riconosciuti con le fattezze di attori talentuosi e coraggiosi .
Basti pensare al volto spettrale di Bela Lugosi nei panni del conte più cattivo della storia, Dracula, al Frankestein di Karloff o al "Mad Doctor" Vincent Price. Figure del male si sono incarnate negli anni in Christopher Lee, e insani pensieri hanno abitato la mente dell'istrionico Jack Nicholson. Anthony Hopkins ha invece dovuto seguire il motto "homo homini lupus" per consacrare il suo talento ad uno dei cattivi più terrorizzanti degli ultimi anni, Hannibal Lecter, mentre De Niro diventa il "bad boy" per eccellenza "non solo chiacchere e distintivo", il mefistofelico John Malkovich interpreta la perfidia più subdola e Christopher Walken diventa un "tagliatore di teste" sadico che si ispira ai cattivi più celebri che lo hanno preceduto. Anche le donne hanno la loro dose di cattiveria: chi non ricorda la malvagia Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane?. Come non lasciarsi soggiogare dal mistero della Dama Nera Barbara Steele e dal fascino pericoloso di Glenn Close? I "bad boys"(e "girls") abbracciano trasversalmente generi e cinematografie differenti, riescono continuamente a riciclarsi e a riproporsi. Evidentemente conoscono davvero il segreto dell'immortalità.