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venerdì 25 febbraio 2011

Rango, il wild west d’animazione



A pochi giorni dalla premiere losangelina, il regista Gore Verbinski e la giovane attrice Abigail Breslin presentano a Roma il film d’animazione Rango, camaleonte eroe per caso, con la voce (nella versione originale) e le espressioni di Johnny Depp. Del resto, squadra che vince non si cambia e il regista del primo episodio della fortunata saga piratesca di Jack Sparrow firmata Disney, potrebbe bissare il successo con Depp, perfettamente a suo agio nella pelle di una lucertola. Rango verrà distribuito a partire dall’11 Marzo in 450 sale cinematografiche italiane. Il regista Gore Verbinski e l’attrice Abigail Breslin hanno incontrato la stampa e soddisfatto tutte le curiosità riguardo l’eroe camaleontico, immerso in un “wild west” bizzarro e ricco di sorprese.

Cosa l’ha portata a realizzare questo cartoon così particolare e da cosa è dipesa la scelta musicale?

G.V.: «Non credo che l’animazione sia un genere, piuttosto la considero una tecnica. Quello che mi ha affascinato in Rango è stata soprattutto la storia, così bella da raccontare. Ecco, ci è sembrato il tempo giusto per proporla. Penso che la pellicola sia un’opera che ci farà riflettere. Guardiamo il protagonista, l’eroe. È interessante che sia un camaleonte e soprattutto che sia un attore, uno che crede che la vita sia un enorme palcoscenico. Volevamo un personaggio diverso, uno che ha sfaccettature e crisi esistenziali. Era lui il nostro timone. È dalla ricerca d’identità di Rango che abbiamo costruito tutto il film. E mi fa piacere che il risultato finale sia un qualcosa di completamente diverso rispetto ai classici canoni del film d’animazione. Spiace dirlo ma in certi casi ci troviamo davanti a prodotti che sembrano degli Happy Meal confezionati a uso e consumo di mamme e bambini. Ancora non riesco a capire quanto la nobile arte di Ralph Bakshi e Ray Harryhausen abbia iniziato a peggiorare. È stato positivo non avere un’esperienza pregressa, così siamo riusciti a dare grande complessità ai personaggi. Sono sempre stato convinto che Rango non avrebbe potuto mai essere un film tradizionale, perché le classiche espressioni non avrebbero potuto esprimere la profondità del viaggio interiore che compie il protagonista. Il primo anno e mezzo di lavorazione lo abbiamo passato facendo una vera e propria jam session con disegno a matita e voci. La musica, invece, proviene da un mio amico delle superiori. Mi sono ricordato della canzone che cantava quando eravamo più giovani e al momento della realizzazione del film mi è tornato in mente quel ritornello».

Rango non è solo un cartoon ma anche un western

G.V.: «Io volevo proprio celebrare il linguaggio del western. In questo sono stato aiutato anche dalla musica e più in generale dai suoni che per me sono fondamentali. Mi sono chiesto molte volte come sarei riuscito a rendere contemporaneo un genere così particolare. In poche parole avrei dovuto essere innovativo e classico al tempo stesso. Così ho tratto ispirazione da Sergio Leone. E anche dai cartoon di Tex Avery. Ecco, quando penso ai film d’animazione non penso certo ai cartoni animati, ma in questo caso alcuni elementi esilaranti hanno proprio come riferimento i cartoon. Non mancano però gli aspetti più seri. Ogni personaggio ha una storia dietro di sé, magari non la raccontiamo ma sappiamo che è successo qualcosa, come al povero coniglio che ha perso l’orecchio».

Secondo lei perché adesso il western è tornato di moda? Il riferimento è al Grinta dei fratelli Coen…

G.V.: «È una coincidenza interessante. Forse il western è il modo più pulito per raccontare una fiaba. Forse le nostre vite sono diventate così piene e complesse che solo nel deserto del far west possiamo fare chiarezza su di noi e rispondere a certi interrogativi. Ad esempio, quando ci siamo arresi? Quando abbiamo abbandonato la nostra individualità in nome dello sviluppo? Forse ognuno di noi, grazie a questo genere così peculiare, torna indietro a quando tutto era più semplice. Il western è stata la giusta chiave per rendere introspettiva la storia di Rango, che è diventata la figura adatta a raccontare questo percorso».

Le riprese per gli animatori di computer grafica sono state effettuate mentre recitavate tutti insieme in costume in un teatro. Com’è recitare in questo modo, scorporandosi da se stessi?

A.B.: «È molto diverso da quando si gira e si doppia un film d’animazione, è una sorta di live action movie, per noi è stato più facile e ci siamo divertiti vedendo noi stessi immersi nel contesto di Rango».

Queste riprese del backstage si potranno vedere? Magari nell’edizione speciale in home video?

G.V.: «È parte del processo di creazione, il video non è perfetto per essere digitalizzato e messo in commercio, è un prodotto fabbricato».

A.B.: «Potrebbe essere divertente ma anche stancante vedere la camera e il microfono sulla faccia degli attori costantemente per tutto il tempo della ripresa».

Non pensa che per un film d’animazione Rango raccolga in sé troppe citazioni?

G.V.: «Come una lasagna, il film ha molti strati, è su più livelli, anche se non tutti hanno riferimenti storici per una determinata citazione, rivolta maggiormente ai cinefili, è bello vedere le diverse reazioni in sala quando scende il buio».

Com’è stato collaborare più volte con Johnny Depp? Cosa le ha fatto desiderare di trasformare Johnny Depp in qualcosa che vada oltre il corpo?

G.V.: «Con Johnny siamo amici ed è bello lavorare con un vecchio amico. Anzi, il personaggio di Rango è stato fatto su misura per lui. Il regista e l’attore devono avere un rapporto speciale perché così si può scoprire quel qualcosa di inaspettato che un interprete può dare. Allora sì che può diventare coraggioso nella sperimentazione di cose nuove. Un regista poi deve sorprendere l’attore, è questa la vera sfida che noi raccogliamo quando facciamo un film. Adoro lavorare con lui ed è divertente scoprire qualcosa di inaspettato, quando arrivi a un certo punto vuoi spingerti oltre e provare qualcosa di diverso, come nel caso della trasformazione di Johnny in un cartone animato».

Nel film utilizza un simbolismo che allude ad una dimensione spirituale: la ricerca dell’acqua, la metamorfosi del camaleonte… Sono riferimenti voluti o casuali?

G.V.: «Quello di Rango è di sicuro un viaggio in cerca di una identità. Certo, avevamo bisogno di una storia per questo personaggio. Una storia che ha più strati, più livelli, in modo che ognuno possa identificarsi».

È vero che sta pensando a un nuovo progetto con Johnny Depp, il film The Lone Ranger?

G.V.: «Sì, stiamo in fase di scrittura della sceneggiatura».

Avete lavorato in modo completamente diverso rispetto a un film d’animazione “classico”?

A.B.: «Sì, non eravamo nella classica sala di registrazione, davanti allo schermo cercando di rientrare nei tempi previsti con le nostre battute, ma abbiamo recitato tutti insieme. Sembrava davvero di stare in un film d’azione, perché si poteva recitare guardando la reazione dell’altro, come si muoveva, con un risultato finale molto naturale. Posso dire davvero che a un certo punto mi ero proprio scordata di essere in un film d’animazione, ed è stata un’esperienza straordinaria».

G.V.: «I venti giorni di registrazione sono stati il vero spettacolo del film. Era bello vederli recitare tutti insieme».

E del tuo personaggio cosa ci dici, ti somiglia un po’?

A.B.: «Lei non è decisamente il personaggio più glamour del mondo, è diversa da tutti gli altri e l’ho interpretata esattamente come pensavo che fosse. Per questo le ho anche dato l’accento del sud. All’inizio era un carattere piuttosto oscuro e non si lasciava ben comprendere, ma è molto diversa da come sono io».

Priscilla non è il prototipo della bellezza, così come gli altri personaggi. Che effetto ti fa tutto questo?
A.B.: «Questa è stata la cosa meravigliosa dei personaggi del film. È vero, in genere negli altri film d’animazione i protagonisti sono tutti carini. Qui, invece, sono brutti, ma sono anche buffi e bizzarri e nonostante il loro lato oscuro sanno essere molto dolci».

L’animazione non è un genere ma un mezzo, parlando di mezzi ha nei suoi progetti di usare la stereoscopia 3D?

G.V.: «Posso utilizzare qualsiasi mezzo per la narrazione cinematografica, in Rango l’ho utilizzata perché pensavo che mancasse effettivamente una dimensione al racconto se lo avessi narrato in 2D. Non lo sento comunque necessario alla narrazione».

Nel film c’è molta morte, cosa a cui i bambini non sono abituati, ma è una antitesi, quella della morte e della vita, spesso usata nel genere western, come si possono conciliare queste due realtà diverse?

G.V.: «In realtà non è poi così drastica la dicotomia, ad esempio in Bambi uccidono la mamma, la morte non è qualcosa di innovativo nelle narrazioni per bambini. Per ciò che concerne il western ero affascinato quando lo guardavo da bambino, vedere i ragazzi reagire in maniera entusiasta a questo genere, capendo anche la distinzione fra vita e morte è una cosa positiva. Per me non è un problema trattarlo in questo modo, sono cose che esistono intorno a noi».

Quali sono i vostri referenti di animazione tradizionali?

A.B.: «Sicuramente La Sirenetta, quando ero più piccola. Mi sembrava di essere lei. Ho amato Toy Story 3, Cattivissimo me, Rapunzel, anche se quest’ultimo non sono riuscita a finire di vederlo ma non ricordo perché. Un mio amico dice che l’animazione è quello che tiene le persone giovani, non lo so, ma penso sia così!»

G.V.: «Miyazaki mi ha affascinato con la sua logica sognante, io sono affascinato dalla possibilità di poter realizzare tutto con questo genere di animazione».

La tua è stata la gavetta dei cosiddetti bimbi prodigio. Quanto è stato difficile per te sopportare il peso di una simile responsabilità?

A.B.: «È indubbio che ti senti sotto pressione, lo ammetto. Ma se pensi che al mondo ci sono cose più serie, tutto si ridimensiona un po’».

Sei stata candidata all’Oscar per Little Miss Sunshine, e quest’anno in lizza per una statuetta ci sono due giovani attrici come Hailee Steinfeld e Jennifer Lawrence. È un caso o le parti migliori arrivano proprio in questa fascia d’età?

A.B.: «Io penso che ci siano grandi ruoli ad ogni età. Certo, più si cresce e più si hanno possibilità di fare cose importanti. Per esempio, se mi chiamasse Danny Boyle andrei di corsa. Ho amato alla follia The Millionaire».

sabato 12 febbraio 2011

Burlesque


Nonostante qualche nota positiva, Burlesque resta un’occasione sprecata per Antin che di sicuro non si è impegnato abbastanza affinché il suo film diventasse un musical cult, ma ha solo dimostrato una viscerale ammirazione per la platinata Christina

Ugola d’oro e bellezza vamp alla Marilyn Monroe, la star d’oltreoceano Christina Aguilera, 100 milioni di dischi venduti e 5 Grammy vinti all’attivo, debutta sul grande schermo tra i lustrini, i bustier e le guêpières del Burlesque losangelino. In realtà, la Aguilera vantava già un’apparizione canterina nel musical cult Moulin Rouge firmato Baz Luhrmann, dove si è resa indimenticabile con la sua strepitosa interpretazione di Lady Marmalade. La storia ripete i topoi narrativi più classici della scaltra e talentuosa ragazza di provincia che sogna di sfondare nella grande città. E proprio inseguendo il suo sogno che Ali/Aguilera si troverà a lavorare come cameriera al Burlesque Lounge di Sunset Boulevard, un locale in declino gestito dall’autoritaria Tess/Cher. Il Burlesque Lounge per la giovane e bella Alì sarà un po’ come la tana del Bianconiglio per Alice; il mondo meraviglioso e spettacolare che le si rivela, la catapulta in una dimensione alternativa e magica, dove acquisisce più consapevolezza di se stessa e mette alla prova il suo talento. Il palcoscenico è lo spazio incantato dove i desideri diventano realtà, e sebbene la Aguilera sia impeccabile nelle sue performances siamo lontani dalle atmosfere e suggestioni burlesque che il regista Steve Antin intendeva riprodurre. Non a caso si parla di “arte del burlesque” che un tempo confuso con il semplice strip-tease della Parigi ottocentesca, è in realtà un genere di spettacolo nato nell’Inghilterra vittoriana e importato successivamente in America, il quale si configura come uno show completo, cantato e ballato, dove comicità e sensualità si mescolano e i momenti osé non diventano mai volgari, semmai parodistici. Attualmente abbiamo assistito ad una riscoperta di questo genere nella nostra cultura, il cosìdetto “new burlesque”, tra i cui artisti spicca per popolarità la conturbante Dita Von Teese.

Il film, dunque, fallisce come omaggio al burlesque e anche come musical, in quanto i dialoghi sono solo da contorno e le canzoni non compenetrano nella narrazione, ma rappresentano momenti a se stanti che puntano i riflettori sulla star e annullano il resto. La sceneggiatura è di una banalità a tratti sconcertante e il bel tenebroso con l’eyeliner Cam Gigandet è l’unica nota veramente sexy dell’intero spettacolo.

E’ da considerarsi riuscitissimo invece, e risulta anche piacevole, se lo si vede come un “one-woman-show”, un pretesto per godere di una esibizione di due ore dove la bionda Christina non si risparmia, cambia abiti, parrucche e tonalità, mostrandosi in tutto il suo splendore e la sua bravura. Piccolo show anche per la diva Cher, poco espressiva durante tutto il film tranne che durante la sua performance canora (la ballata “You Haven’t Seen The Last of Me”, premiata ai Golden Globes). Tutta la musica di Burlesque è comunque degna di nota, e molti brani resteranno indimenticati. Spassosa la prova di Stanley Tucci che, dopo Il Diavolo veste Prada, è di nuovo a servizio delle donne e della moda, questa volta nei camerini del Burlesque Lounge. Divertente il cameo di James Brolin,marito di un’altra superstar, Barbra Streisand.

Nonostante qualche nota positiva, Burlesque resta un’occasione sprecata per Antin che di sicuro non si è impegnato abbastanza affinché il suo film diventasse un musical cult, ma ha solo dimostrato una viscerale ammirazione per la platinata Christina, la quale va ad aggiungere un’altra e meritatissima standing ovation ad una vita costellata di successi e adornata di piume e paillettes.