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mercoledì 22 settembre 2010

Quel “mostro” di casa


OSCURE PRESENZE E DRAMMI FAMILIARI: VIAGGI SENZA RITORNO TRA LE QUATTRO PARETI DOMESTICHE



LO “SPAZIO MORTALE”

I “Brutti Posti”si configurano come l'habitat naturale di fantasmi e “presenze” di ogni sorta, ma a ben vedere, essi possono essere delle “batterie psichiche”, capaci di assorbire e contenere al loro interno tutta quella carica di “energia” scaturita da emozioni intense e primordiali. Oppure possono rivelarsi come un'emanazione della psiche tormentata di chi la abita o di chi l'ha abitata, una sorta di prolungamento dell'io narcisistico di qualche proprietario che faceva della casa il proprio specchio. Uno degli esempi migliori di “brutto posto” nel cinema contemporaneo è senza dubbio The Others (2001) di Alejandro Amenábar; la casa stregata in questione è un'isola innevata di ombre e nebbie abitata da una donna, Grace, e i suoi due figli. L'abitazione è sempre al buio, le finestre devono restare chiuse perché i bambini sono fotosensibili e uno spiraglio di luce potrebbe ucciderli. Nella dimora vittoriana vigono regole rigidissime imposte dal profondo senso di religiosità di Grace, regole che servono a scongiurare quella sensazione di minaccia, di pericolo incombente che pervade la casa, in cui si mescolano presenze e assenze.
Amenábar gioca sulla doppia valenza del “brutto posto”: esso è specchio della mente disturbata di una madre costretta a far vivere i propri figli come vampiri, o è davvero una casa stregata?
Nella villa priva di ogni mezzo di comunicazione, con lunghi corridoi, c'è un pianoforte che suona senza che nessuno sfiori i tasti, ci sono tende che si aprono da sole. Chi sono gli “altri”, gli “intrusi”? Grace con i suoi bimbi malati, che attende il ritorno del marito, morto nella guerra del '45, o due domestici misteriosi con una ragazzina muta che giungono misteriosamente nella casa? Chi è veramente morto e chi è vivo nel chiaroscuro dei corridoi? Quale terribile segreto deve restare nascosto, dietro ogni porta obbligatoriamente chiusa, perché non ci spaventi?
Stesso “brutto posto”, quello di Juan Antonio Bayona nel suo The Orphanage (2008), chiaramente ispirato al capolavoro di Amenábar, in cui la casa è un vero e proprio personaggio, rappresenta uno stato mentale dal quale la protagonista, Laura, non vuole distaccarsi perché è il luogo di un'infanzia idealizzata, un rifugio dal mondo degli adulti e delle responsabilità. Laura, è un personaggio infantile che non sa rapportarsi con l'età adulta, ma è anche una donna coraggiosa perché decide di affrontare i propri incubi personali da sola nella casa. Il “brutto posto” qui rappresenta tutte quelle “zone oscure” della vita che minacciano la nostra stabilità, quali la morte, la malattia, l'abbandono, il trauma della separazione da un passato che si credeva idilliaco o da una presenza a noi cara che potrebbe venire a mancare in futuro e, nel contempo, costituisce un rifugio sicuro, quell'isola che non c'è in cui i nostri ricordi vengono preservati e gli “strappi” emotivi ed affettivi ricuciti.
Il “fantasma” qui può essere letto sia come elemento soprannaturale, che come qualcosa che ci “abita” dentro, uno spettro che si agita dentro di noi.

L’HOTEL ASSASSINO E LA CASA FAMELICA
Stanley Kubrik in Shining (1980), tratto dal libro omonimo di Stephen King, rielabora in chiave horror il topos letterario della “casa infestata” trasformandola in un hotel, relazionandolo con una famiglia, composta da una coppia e dal loro figlio, dotato di facoltà telepatiche. L'Overlook Hotel, in realtà, è un luogo pieno di influenze tragiche; sorto sopra un vecchio cimitero indiano, in esso “alberga” il segreto e la colpa di una storia di follia omicida, avvenuta anni prima. Grazie alle doti “magiche” del nuovo residente, l'hotel diviene un luogo che mette in comunicazione passato, presente e futuro, aprendo una dimensione “altra”, emozionale in cui i tre tempi convergono.
La struttura labirintica dell'albergo invece, non solo è una chiara proiezione dello squilibrio mentale del guardiano, ma associa il “brutto posto” ad uno status onirico, ad una rappresentazione simbolica del subconscio degli abitanti della casa.
Il fatiscente edificio di Monster House (2005) potrebbe nascondere mostri terrificanti o spettri che trascinano catene, ma in realtà è la casa stessa a costituire un pericolo per i tre ragazzini incuriositi che vogliono scoprire il suo segreto. La sinistra dimora è una casa “affamata”, che mangia tutto ciò che gli capita a tiro, bambini compresi. Il film di Gil Kenan, prodotto da Spielberg e Zemeckis, oltre ad essere un'eccellente prova di motion capture, è un'ironica rivisitazione dello stereotipo della classica haunted house, ovvero della casa occupata da “presenze” indesiderate. I temerari ragazzi compiranno un viaggio surreale, la notte di Halloween, fin nelle viscere della casa, e sì perché l'abitazione ha un cuore, e ogni organo vitale posseduto da un essere umano. L'antropomorfizzazione della casa è dovuta all'identificazione di quest'ultima con la proprietaria defunta, la cui anima ingorda è imprigionata nella dimora. Il maleficio che incombe sulla casa verrà annullato dai tre teenagers che libereranno la casa dallo spirito ingombrante, anche nelle dimensioni, della signora onnivora.
Come direbbe Dante "Lasciate ogni speranza voi ch'entrate" perchè dietro ogni porta di qualsivoglia rispettabile casa può nascondersi l'inferno.

Le figure del crepuscolo di Tim Burton



L'altra umanità: creature destinate alla solitudine, uomini sotto la pelle d'animale (o viceversa), spettri in abito nuziale: benvenuti nell'universo burtoniano


I film di Tim Burton sembrano muoversi in un “altrove impalpabile” dominato dalla sola immaginazione, punto di incontro tra contingenza e straordinario.
Il mito di Frankenstein è un vero e proprio leit-motiv nel cinema di Burton. Il problema della creazione, solleva questioni esistenziali; Burton concepisce qualsiasi essere, umano o non, come una sorta di collage, di pezzi cuciti insieme, sia in senso emotivo che in senso fisico.
Forse il film più personale della carriera del regista, interamente ideato, scritto, e realizzato da lui è Edward mani di forbici (1990).
L’idea di “un ragazzo con forbici per mani” viene concepita prima graficamente e poi come soggetto cinematografico; un’immagine forte, audace ed irreale, che delinea un personaggio in conflitto con se stesso, la sua incapacità di comunicare, di “toccare” le cose.
Il mostro non ci viene mai presentato come una figura negativa ma come una creatura triste, dal corpo deforme o menomato, che non riesce a trovare il suo posto nel mondo. I veri cattivi sono i villains, è la folla rabbiosa che rincorre Edward alla fine del film.
La genesi dei due personaggi Edward/ Frankenstein presenta molti punti di contatto. Entrambi vengono creati artificialmente in un laboratorio da un anziano inventore, ma la “mostruosità” di Edward deriva da una mancanza. L'opera del mad doctor-padre è rimasta incompiuta perché questi è morto prima di donare alla sua creatura le mani.
Questa “duplice assenza” genera paura e solitudine e non consente ad Edward di integrarsi nella società; egli non viene riconosciuto come umano tra gli umani, non gli viene attribuito un valore come persona anziché come oggetto di curiosità.
L’epilogo si chiude con il ritorno di Edward al suo mondo, al maniero gotico dove è stato creato, seguito da una folla irata di frankensteiniana memoria.

ISTINTI ANIMALI

In Batman (1989), Burton riprende due archetipi delineati da King: il Licantropo e il Vampiro. Batman, infatti, si fonde col suo animale totemico, il Pipistrello, che a sua volta ricalca il mito del vampiro. Egli agisce solo di notte, vive in una caverna, quasi una cripta, abitata solo da pipistrelli, situata sotto un maniero che domina Gotham City. Ma è la relazione Batman/Joker a dominare la struttura drammatica del film. È Batman stesso a creare il Joker facendolo precipitare in una vasca piena d’acido. L’uomo sopravvive, ma il suo viso resta orrendamente sfigurato e diventa una maschera grottesca dal ghigno spaventoso e dai colori acidi e accesi. I due personaggi sono legati a filo doppio, sono l’uno lo specchio dell’altro. La “metamorfosi” del Licantropo avviene nei due personaggi in modi diametralmente opposti: mentre nel Joker non c’è scarto tra essere e apparire, il suo volto è già una maschera permanente, Wayne ha invece bisogno di farsi “altro da sé”, di indossare una maschera per divenire Batman. L’uno è folle, l’altro lotta con i propri conflitti interiori e cerca una valvola di sfogo a questi, assumendo altre sembianze.
Il Joker pone al centro della sua esistenza una ricerca estetica, ergendo se stesso a oggetto della sua arte. Un’arte provocatoria, dissacrante, che irrompe nella vita con la propria carica distruttiva, oltrepassa il confine tra bene e male rendendo un atto criminale, l’omicidio, atto di sovversione artistica.
In Batman Returns (1992), Catwoman e il Pinguino sono prolungamenti dell’io schizofrenico di Batman, la loro maschera non è un segno di occultamento, ma mezzo di liberazione attraverso cui esprimere pulsioni primitive. Mentre il Pinguino è un mostro, un uomo-anfibio non riconosciuto come persona, Catwoman è un Licantropo, che fonde la sua natura con quella del suo animale totemico, il gatto.
Entrambi, però, rimangono nella loro pelle d’animale e sotto di essa soffocano la sofferenza, senza mai giungere a una piena consapevolezza di loro stessi, a una maturità che li porti a “uscire dalla morte” fisica o simbolica, ossia elaborare i conflitti consci e inconsci, verso il riconoscimento di un’identità, un’interiorità.

SPETTRI E FIORI D’ARANCIO

L'archetipo del Fantasma è invece pienamente rappresentato da La Sposa Cadavere (2005): il film trae spunto da una leggenda ebraico-russa, secondo cui gli antisemiti si recavano ai matrimoni israeliti per uccidere le spose, per evitare il perpetuarsi della stirpe, seppellendo i cadaveri con ancora indosso l'abito nuziale. Dalla terra coperta di ghiaccio vediamo sbucare una figura inquietante, sembra uno zombie che risorge dagli inferi, si aggrappa al terreno con forza per risalire dal sottosuolo. Lo spettro, Emily, alza il velo da sposa stracciato, mostrandoci il volto. Ci rendiamo conto di quanto sia bella, anche se è morta e in decomposizione e con le palpebre violacee.
L'anima della sposa, imprigionata in un corpo decomposto si trasforma, quando i suoi conflitti interiori trovano una risoluzione, in una miriade di farfalle (psiche in greco significa sia anima che farfalla); Emily è espressione visiva, nel suo splendore e nella sua fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell'esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.

La povera piccola ragazza ricca di Andy Wahrol: Edie Sedgwick


Una “povera piccola ragazza ricca” che diviene una celebrità per poco più dei quindici minuti di fama di cui parlava Andy Wahrol. Una principessa della controcultura americana dai capelli biondo platino e gli occhi marcatamente truccati, incantevole nella sua fragilità, bella e dal fascino glamour, ma destinata ad un declino rapido quanto la sua ascesa. Questo il ritratto, dai contorni un po’ sfumati, di Edie Sedgwick, icona della cultura pop, meteora dello star system: intelligente, carismatica, fuori dagli schemi, nervosa nei movimenti, profonda nello sguardo, dalla bellezza anticonvenzionale e trendy. New York è lo scenario, in cui negli anni '60, Edie, la ragazza con gli occhi dal colore di “due barrette di cioccolato Hershey”, incontra il genio pop Andy Wahrol, che affascinato dallo stile e dalla personalità della ragazza, la erige a “rango” di musa, trascinandola al centro dell'eccentrico e vibrante mondo della “factory”, la sua fabbrica creativa, il luogo dove l’artista dipingeva, girava film, intratteneva i suoi amici.
Edie diventa con estrema facilità uno di quei falsi miti creati da una cultura “usa e getta”, una dea pop idolatrata e poi presto caduta nel dimenticatoio. Warhol è l’artefice di questo nuovo modo di vedere il mondo, la sua arte non inventa ma re-inventa le cose, trasforma una faccia seria in una serie di facce, una scatola di fagioli o un fustino in un oggetto di culto, sbatte l’America in faccia all’America riproponendo all’infinito i simboli effimeri che la rappresentano, probabilmente per sopperire a quel vuoto di valori e di tradizioni culturali che la distingue dalla vecchia Europa. Ma dietro questi simboli, siano essi lattine di Coca cola o volti umani, c’è un uomo, un artista e le sue idee, idee che rivoluzionano, “eccedono”, veicolano la realtà di un’epoca o di una vicenda umana.
Edie offre tutta se stessa alla “factory” con estrema fiducia ed ingenuità; il suo corpo, il suo volto espressivo e la sua stessa vita diventano un oggetto ad uso e consumo di tutti, proprio come una scatola di Campbell Soup. Il rischio è che la sua anima diventi vuota proprio come quella scatola di latta. Neanche l’amore per la rockstar Bob Dylan, che scrive per lei la canzone Just like a woman, riuscirà a salvarla e ad allontanarla dal mondo di Andy, da cui è totalmente sopraffatta. La droga, l’alcool, il lusso, la fama accecano la piccola star proprio come i milioni di flash che la immortalano continuamente, trasportandola in un baratro senza fine.
Il merito e la colpa di Warhol è stato quello di “spezzare il dolore”, trasformandolo in arte, attraverso un'alchimia segreta che combina una storia di violenza, morte e pazzia; i suoi film sulla “povera ragazza milionaria” si possono concepire come antenati dei nostri moderni “reality show”, capovolgendone però la finalità, non esistenze comuni rese eccezionali dai riflettori ma esistenze eccezionali esaltate dall’occhio impietoso della cinepresa.
Così Edie che si sveglia, ordina caffè e succo d’arancia, si trucca, si veste, parla al telefono e racconta alla macchina da presa il suo dolore, la sua rabbia e infine la sua miseria, diviene poi un corpo inerme, abusato, deturpato da lividi, su un letto sfatto, una Venere scesa dal suo Olimpo glorioso a cui nessuno restituirà quel sorriso, ossessivamente ritratto, fotografato, filmato, che lei non è nemmeno più in grado di riconoscere. La stella del firmamento di Warhol diventa uno scarto del sistema produttivo sul quale la filosofia pop costruisce le sue basi, Edie Sedgwick “la prima It girl”, è solo una merce di scambio, e come tale si sottopone alle dure leggi del mercato, riciclabile, vendibile e come tale va rimpiazzata con un nuovo prodotto (le nuova muse di Warhol: la drag queen Candy Darling, l'attrice portoricana Holly Woodlawn )
Nonostante questo, Edie resta la prediletta del “genio”, come l’artista pop amava farsi chiamare dalla ragazza; la relazione tra i due tradisce un legame che va oltre il rapporto artistico, carico di emotività e affinità intellettive, per certi versi morboso. La Sedgwick muore a soli ventotto anni a causa di una overdose, dopo una lunga permanenza nella clinica psichiatrica dove ha trascorso l’infanzia, e il suo breve matrimonio con un paziente. Andy ed Edie condividevano oltre al gusto artistico un folle desiderio di fama, probabilmente li accomunava un altrettanto folle paura della morte, a cui solo il ricordo, tanto più se immortalato e ripetuto all’inverosimile, può sopravvivere. I quindici minuti di fama di Edie hanno influenzato un'intera generazione, e sebbene le siano costati la vita, le hanno garantito l'immortalità.

L'arte di Warhol ci restituisce un'icona di dolcezza e dolore, dai capelli spettinati e il trucco sfatto, ma dietro l'immagine forte di donna indipendente si cela una fragilità struggente e il panico nei confronti del mondo.
Chi conosceva Edie la descrive come una ragazzina intimorita in cui convivevano una carica vitale eccezionale e un passato doloroso, un ottimismo nei confronti della vita e un senso imminente di tragedia. La prima superstar della storia ha l'anima punk e un cuore che si sgretola facilmente, è un angelo nero con lo sguardo sempre perso nel nulla, con le frasi lasciate a metà, i pensieri fumosi, e un urlo di rabbia rotto da un sorriso.

Les Femmes Fatales



Potremmo racchiudere l'immagine della femme fatale in un corpo, o mille corpi; in sguardi che seducono e ammaliano per poi condurre alla rovina chiunque ne fosse pericolosamente attratto. Ma sbaglieremmo clamorosamente.
In realtà, la femme fatale è pura energia femminea che si rinnova nel tempo, e al di sopra del tempo, facendo convergere in un unico sguardo, tutti gli sguardi, e in un unico corpo, tutti i corpi.
Dall'imperatrice Theodora nel regno di Giustiniano, alla Salome di Strauss e di Oscar Wilde, intrisa di spirito decadente, la femme fatale è la regina bellissima e terribile, l'incantatrice, la strega, la vedova nera, la vampira, l'incubo e il sogno di ogni uomo. Una donna che rappresenta la dicotomia tra Bellezza e Morale, Passione e Sentimento, risolta a netto vantaggio dei primi.
Donna Fatale, Eros e Thanatos; una figura leggiadra e conturbante che aleggia nell'aria come una mantide religiosa, si muove sinuosa come una pantera, conducendo le proprie prede in un valzer mortale. Un mito, un'icona che afferma con forza la natura diabolica, e insieme, divina della donna.
Spesso associata alla “vamp”, ovvero una donna che vampirizza gli uomini, castrandoli del loro potere, e alla “dark lady”, un'oscura signora che oltre alla brama di sedurre cela un profondo desiderio di annientamento del maschio-oggetto. La femme fatale contemporanea interpreta un nuovo concetto di femminilità, una donna nuova che domina la società in cui vive ed è padrona del proprio destino, e non solo del proprio rapporto amoroso.
Le Maghe Circe della modernità sono le dee dell'Olimpo Hollywoodiano; dai film muti di Theda Bara, la prima vamp della storia, all'algida Marlene Dietricht fino alla bambola sexy dagli abiti svolazzanti, determinata a sposare l'uomo che ha sedotto, l'ineguagliabile Marylin Monroe.
Un'aura di mistero circonda le donne dei film noir, le cosidette dark lady, perverse quanto basta per trascinare in un baratro oscuro di perversione e morte i propri partners. In Femmina Folle di John. M Stahl è rappresentato l'incubo reale dei soldati americani, che di ritorno dalla guerra si vedono spodestati dal proprio ruolo a casa e nel lavoro, dalle proprie donne.
La “femmina folle” si evolve da oggetto di sguardo a soggetto; vuole liberarsi dalla prigionia rappresentata dalla vita di coppia, ma anche dal proprio corpo che la “condanna” ad essere prima amante e poi madre. La protagonista del film, Gina Tierney, si ribella alla propria sessualità e alla maternità; rifiuta la sua stessa natura di donna, cercando di annullare ciò che sta nascendo in lei, anche a costo della sua stessa vita.
La donna vuole scoprirsi diversa, dominare se stessa e il mondo; non cerca più di assomigliare all'uomo, ma sente il bisogno di distinguersi e affermare la propria identità. E' questa la “femme hitchcockiana”, una donna alla ricerca di un equilibrio, più matura ed arguta: la Grace Kelly in La finestra sul cortile e Gli uccelli, il “ghiaccio bollente” del maestro del brivido, ossimoro vivente che coniugava freddezza e sensualità, logica e sentimento.
Norma Jeane Baker in arte Marilyn Monroe rappresenta il sogno proibito degli americani (e non solo); sex symbol e icona pop sulla cui morte prematura aleggia ancora un'aura di mistero. Di lei disse Arthur Miller, celebre commediografo « Si materializzò sulla porta come l'ultimo dei pensieri, quello che non ti capita mai in testa, quello che quando arriva fa "bang", e per qualche minuto hai la mente vuota e non sai pensare ad altro ».
Marilyn, una miscela esplosiva di erotismo ed innocenza, un'artista che si definì "un prodotto artificiale", una diva dalla vita tumultuosa che mirava, come lei stessa dichiarò, non alla fama e ai soldi, ma ad "essere magnifica", riuscendoci perfettamente. Un modello femminile talmente perfetto e desiderabile da sembrare un'emanazione divina persa nel tempo della proiezione cinematografica, immortalata in migliaia di foto su riviste patinate e calendari sexy, riprodotta all'infinito nelle opere pop di Andy Warhol, emulata da decine di star, ma mai eguagliata. Tragicità e bellezza, un fascino etereo e malizioso nel contempo; la Monroe, un angelo biondo dalle diaboliche anomalie, appare ora quasi un personaggio di fantasia, una Jessica Rabbit ante litteram che danza sinuosa nei sogni dei maschi di tutto il pianeta, dispensando baci leggeri come un soffio e catturando sguardi con i suoi occhi splendenti come diamanti.

Proviene invece dall'Europa, un'altra "biondona" dalle curve morbide come lasigla che la rappresenta: B.B Brigitte Bardot è una donna sempre più sicura del proprio fascino, vera icona di una nuova femminilità anni '60-70. Stupenda anche acqua e sapone, semplice ed intelligente, un'incantatrice moderna indipendente e forte, una sirena dal delizioso accento francese che affascinò l'America, diventando secondo il critico cinematografico Ivon Addams “l'idea che ogni uomo ha della ragazza che vorrebbe incontrare a Parigi".
Catherine Trammell alias Sharon Stone è entrata prepotentemente nell'immaginario erotico contemporaneo, semplicemente accavallando le gambe; una vedova nera in carne ed ossa che dopo aver consumato l'amplesso con il proprio partner, voracemente come un pasto, se ne libera uccidendolo. E senza inutili sensi di colpa. La Trammell di Basic Istint è una delle rappresentazioni più estreme e crudeli di femmes fatales; eppure non smette mai di piacere. E questo non solo perché emana sensualità da tutti i pori, o perché la sua “dipendenza da rischio” in qualche modo giustifica le sue carneficine, ma perché incarna il segreto, oscuro desiderio di rivalsa, nei confronti dell'uomo, che ogni donna, almeno una volta nella vita, ha provato.
La “Femme Fatale”di Brian De Palma ha il volto di Rebecca Romijn: un omaggio ai film noir francesi anni'40 in cui una biondona mozzafiato, sulla scia di Eva Kant si improvvisa ladra, manipolando col suo fascino un'altra donna, a cui sottrarrà un gioiello prezioso a forma di serpente, simbolo biblico del Male, e cosa ben più preziosa, l'identità. De Palma destruttura un genere per ricostruirlo, a suo modo, con un'attrice che ricalca le dive del passato, una su tutte Barbara Stanwyck, de La Fiamma del peccato; la sua “femme” è una ladra scaltra, determinata, che si muove in un'atmosfera rarefatta per sfuggire alle conseguenze del “colpo” che ha messo abilmente a segno.
Nell'era tecnologica la donna più pericolosa ed intrigante si cela nella rete del web: nel film Birthday Girl, Nicole Kidman è, in apparenza, un'ingenua ed eterea ragazza dell'est, arrivata come dono di compleanno nella vita di un uomo solo. Vittima di pratiche sadomaso, in realtà, Nadja è un'astuta ladra che ammalia col sesso la sua preda per poi renderlo schiavo, non solo d'amore. L'angelo del focolare si trasforma in camera da letto in una pornodiva; la donna russa, che non parla la lingua dell'uomo, comunica con l'unica arma che ha a disposizione: il suo corpo. E come una novella Giuditta sovrasta la forza virile più bruta, ma questa volta risparmiando la testa alla sua vittima.