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mercoledì 22 settembre 2010

Le figure del crepuscolo di Tim Burton



L'altra umanità: creature destinate alla solitudine, uomini sotto la pelle d'animale (o viceversa), spettri in abito nuziale: benvenuti nell'universo burtoniano


I film di Tim Burton sembrano muoversi in un “altrove impalpabile” dominato dalla sola immaginazione, punto di incontro tra contingenza e straordinario.
Il mito di Frankenstein è un vero e proprio leit-motiv nel cinema di Burton. Il problema della creazione, solleva questioni esistenziali; Burton concepisce qualsiasi essere, umano o non, come una sorta di collage, di pezzi cuciti insieme, sia in senso emotivo che in senso fisico.
Forse il film più personale della carriera del regista, interamente ideato, scritto, e realizzato da lui è Edward mani di forbici (1990).
L’idea di “un ragazzo con forbici per mani” viene concepita prima graficamente e poi come soggetto cinematografico; un’immagine forte, audace ed irreale, che delinea un personaggio in conflitto con se stesso, la sua incapacità di comunicare, di “toccare” le cose.
Il mostro non ci viene mai presentato come una figura negativa ma come una creatura triste, dal corpo deforme o menomato, che non riesce a trovare il suo posto nel mondo. I veri cattivi sono i villains, è la folla rabbiosa che rincorre Edward alla fine del film.
La genesi dei due personaggi Edward/ Frankenstein presenta molti punti di contatto. Entrambi vengono creati artificialmente in un laboratorio da un anziano inventore, ma la “mostruosità” di Edward deriva da una mancanza. L'opera del mad doctor-padre è rimasta incompiuta perché questi è morto prima di donare alla sua creatura le mani.
Questa “duplice assenza” genera paura e solitudine e non consente ad Edward di integrarsi nella società; egli non viene riconosciuto come umano tra gli umani, non gli viene attribuito un valore come persona anziché come oggetto di curiosità.
L’epilogo si chiude con il ritorno di Edward al suo mondo, al maniero gotico dove è stato creato, seguito da una folla irata di frankensteiniana memoria.

ISTINTI ANIMALI

In Batman (1989), Burton riprende due archetipi delineati da King: il Licantropo e il Vampiro. Batman, infatti, si fonde col suo animale totemico, il Pipistrello, che a sua volta ricalca il mito del vampiro. Egli agisce solo di notte, vive in una caverna, quasi una cripta, abitata solo da pipistrelli, situata sotto un maniero che domina Gotham City. Ma è la relazione Batman/Joker a dominare la struttura drammatica del film. È Batman stesso a creare il Joker facendolo precipitare in una vasca piena d’acido. L’uomo sopravvive, ma il suo viso resta orrendamente sfigurato e diventa una maschera grottesca dal ghigno spaventoso e dai colori acidi e accesi. I due personaggi sono legati a filo doppio, sono l’uno lo specchio dell’altro. La “metamorfosi” del Licantropo avviene nei due personaggi in modi diametralmente opposti: mentre nel Joker non c’è scarto tra essere e apparire, il suo volto è già una maschera permanente, Wayne ha invece bisogno di farsi “altro da sé”, di indossare una maschera per divenire Batman. L’uno è folle, l’altro lotta con i propri conflitti interiori e cerca una valvola di sfogo a questi, assumendo altre sembianze.
Il Joker pone al centro della sua esistenza una ricerca estetica, ergendo se stesso a oggetto della sua arte. Un’arte provocatoria, dissacrante, che irrompe nella vita con la propria carica distruttiva, oltrepassa il confine tra bene e male rendendo un atto criminale, l’omicidio, atto di sovversione artistica.
In Batman Returns (1992), Catwoman e il Pinguino sono prolungamenti dell’io schizofrenico di Batman, la loro maschera non è un segno di occultamento, ma mezzo di liberazione attraverso cui esprimere pulsioni primitive. Mentre il Pinguino è un mostro, un uomo-anfibio non riconosciuto come persona, Catwoman è un Licantropo, che fonde la sua natura con quella del suo animale totemico, il gatto.
Entrambi, però, rimangono nella loro pelle d’animale e sotto di essa soffocano la sofferenza, senza mai giungere a una piena consapevolezza di loro stessi, a una maturità che li porti a “uscire dalla morte” fisica o simbolica, ossia elaborare i conflitti consci e inconsci, verso il riconoscimento di un’identità, un’interiorità.

SPETTRI E FIORI D’ARANCIO

L'archetipo del Fantasma è invece pienamente rappresentato da La Sposa Cadavere (2005): il film trae spunto da una leggenda ebraico-russa, secondo cui gli antisemiti si recavano ai matrimoni israeliti per uccidere le spose, per evitare il perpetuarsi della stirpe, seppellendo i cadaveri con ancora indosso l'abito nuziale. Dalla terra coperta di ghiaccio vediamo sbucare una figura inquietante, sembra uno zombie che risorge dagli inferi, si aggrappa al terreno con forza per risalire dal sottosuolo. Lo spettro, Emily, alza il velo da sposa stracciato, mostrandoci il volto. Ci rendiamo conto di quanto sia bella, anche se è morta e in decomposizione e con le palpebre violacee.
L'anima della sposa, imprigionata in un corpo decomposto si trasforma, quando i suoi conflitti interiori trovano una risoluzione, in una miriade di farfalle (psiche in greco significa sia anima che farfalla); Emily è espressione visiva, nel suo splendore e nella sua fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell'esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.

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