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venerdì 29 ottobre 2010

Precious


Arrivato in Italia come ultima tappa di un viaggio lungo un anno tra premi, riconoscimenti e due statuette dell’Academy Awards (migliore attrice non protagonista e migliore sceneggiatura non originale).

Precious, nato dalla penna della scrittrice americana Sapphire col titolo di Push e tradotto per il grande schermo dal regista Lee Daniels è la storia agghiacciante di una ragazza di Harlem, che vive in condizioni disagiate, vittima di abusi e violenze familiari, priva dell’educazione scolastica e con gravi disordini alimentari. Violentata dal padre, rimane incinta due volte. Partorisce un figlio down e ne attende un altro. Subisce continue aggressioni dalla madre che la mortifica, l’accusa di averle sottratto le attenzioni del marito, la picchia brutalmente e abusa di lei.

Lo sguardo impietoso di Daniels ci mostra un mondo, il ghetto, dominato dall’ignoranza e dalla povertà, in cui la violenza, sia fisica che verbale, rappresenta l’unico modo per relazionarsi con l’altro. Un mondo privo di qualsiasi prospettiva o orizzonte culturale, il cui unico contatto con l’esterno, l’unica finestra è uno schermo televisivo. Ed è su questa finestra che si affacciano i sogni di Precious, momenti di evasione onirica che il regista sceglie di mostrarci, oscurando con essi le scene di violenza sessuale. Una scelta che, a detta del regista stesso, serve ad alleggerire il racconto, ma non lo rende meno indigesto, perché presentandosi come un rituale, con la reiterazione scombinata di immagini fortemente rappresentative della quotidianità di Precious, sembra quasi sapientemente studiata per lasciare spazio all’immaginazione dello spettatore.

La forza del film non è nell’orrore che racconta, che lascia senza fiato e blocca qualsiasi reazione emotiva dello spettatore che non sia incredulità, disgusto e indignazione, ma nella protagonista, nel suo coraggio, nella sua determinazione ad uscire dal suo inferno personale, pur non avendo gli strumenti e la chiara percezione di quello che le è successo e che le sta succedendo.

Il riscatto è nell’istruzione, l’unica arma in grado di sconfiggere l’ignoranza bieca che sfocia nella violenza più truce, quella che riduce l’uomo a bestia malevola, quella per cui non esiste compassione, ma solo condanna. Precious, nonostante tutto comprende che c’è davvero qualcosa di “prezioso” in lei e che va salvaguardato. Comprende che la risposta alla violenza non deve essere necessariamente la violenza stessa e che si puo’ uscire dal tunnel se si cerca la luce.

La storia di Precious potrebbe apparirci lontana, temporalmente per la sua atmosfera vintage, dato che è ambientata negli anni Ottanta e spazialmente perché ha luogo in una realtà marginale, tuttavia la potenza visiva delle immagini, l’imponenza fisica e scenica della debuttante Gabourey Sidibe, maschera tragica in cui si riflettono migliaia di Precious, e l’invisibile violenza che striscia come la più alta forma del male, lascia in tutti noi, anche se geograficamente e culturalmente distanti dal ghetto, un segno che è una cicatrice e il peso di una verità insostenibile.

venerdì 22 ottobre 2010

Figli delle stelle


Il film di Lucio Pellegrini mette in scena le umane vicende di un variegato gruppo di anti-eroi nostalgici e sognatori, ai tempi dell’anti-politica e della disillusione esistenziale

«Ho provato a cogliere lo spaesamento, l’amarezza e la frustrazione dei nostri tempi bui, e a trasformarli in una commedia dinamica, eccentrica e un po’ folle. Ho pensato che tutto sommato viviamo in un paese in cui, storicamente, nel tempo, le tragedie si sono trasformate in farse».

Così il regista Lucio Pellegrini esordisce alla conferenza stampa del suo Figli delle stelle. Una commedia agrodolce e surreale che mette insieme un gruppo variegato di antieroi nostalgici e sognatori. In seguito alla tragica morte sul lavoro di un amico, un giovane portuale di Marghera (Fabio Volo) parte per Roma a chiedere giustizia in un talk show televisivo condotto da una giornalista con l’istinto da crocerossina (Claudia Pandolfi). Da quel momento in poi la sua vita si intreccerà con quella di un professore trentenne che lavora in autogrill (Pierfrancesco Favino), un rivoluzionario con una naturale predisposizione all’arte culinaria (Giuseppe Battiston), un uomo uscito di galera che non ha mai conosciuto il figlio (Paolo Sassanelli). Uniti dalla passione antipolitica e dalle illusioni perdute compiono il gesto estremo di protesta: rapire il Ministro del Lavoro per ripagare col riscatto la vedova del portuale. Perché se è vero che loro sono anni luce lontani dal mondo in cui vivono, la politica è altrettanto lontana dai bisogni e le necessità della gente comune che lotta quotidianamente per sbarcare il lunario e immaginarsi un futuro.

Il “colpo” però non va a buon fine perché la strampalata banda rapisce il sottosegretario Stella (Giorgio Tirabassi): un uomo perbene che cerca di far approvare una legge a favore di un’innovativa cura contro il cancro. I personaggi sono il cuore del film, veri e imperfetti, teneri e grotteschi, surreali ma umani. Diversi per provenienza ed estrazione sociale, vivono una condizione di precariato più che sociale, esistenziale, quell’impossibilità all’azione, quella sospensione e quel senso di smarrimento che caratterizza la nostra età.

Il film di Pellegrini si ispira alla grande lezione della commedia umana, da I soliti ignoti di Monicelli all’humour paradossale dei fratelli Coen. I Figli delle stelle sono «senza storia senza età eroi di un sogno», proprio come cantava Alan Sorrenti nel 1977 nella canzone omonima; per portare a termine la propria missione, fallimentare già dall’inizio, partono dalla capitale per rifugiarsi tra i monti innevati della Valle d’Aosta, nel bel mezzo del nulla. Indossano giacche con pelliccia in pieno stile “eighties”, ascoltano dischi in vinile e si improvvisano criminali col passamontagna. Restano ancorati a un mondo vintage perché non si sentono rappresentati dalla realtà che li circonda, ma nonostante questo lottano per il bene comune. Forse per vivere meglio il presente, bisogna intercettare una dimensione altra: in fondo i buchi neri non sono che stelle morenti.

venerdì 8 ottobre 2010

Una sconfinata giovinezza


Avati racconta una storia di amore e malattia in un film dall’intensa carica emotiva che ha in sé la leggerezza della fanciullezza e la poesia dei paesaggi della memoria

Lino e Chicca, una coppia come altre unita da un amore lungo ed intenso, che tuttavia nella sua pienezza porta il peso di un’incompletezza, di una mancanza, di un desiderio e una necessità mai esauditi: un figlio. Questa urgenza di amore anziché infrangere, cementa una relazione che assume nel tempo declinazioni sempre più profonde e comprensibili solo all’interno della coppia stessa.
Quando il dolore fa irruzione sotto forma di una malattia, il morbo di Alzheimer, nella vita di Lino e quindi della sua compagna Chicca, il presente diventa un ricordo sbiadito eppure reale. Lino invecchia col corpo, ma la sua mente ritorna all’infanzia, in un luogo invisibile in cui Chicca ancora non c’era, eppure l’amore per lei resta e si trasforma. Pupi Avati, che per la prima volta racconta una storia d’amore, trasfigura i ricordi infantili di Lino in chiave magica, quasi fiabesca.

Una giovinezza, segnata dalla perdita dei genitori, da un incidente, dal casale degli zii in campagna, dalle scorribande per i colli bolognesi con un cane al seguito. Chicca segue il compagno in questo viaggio a ritroso, diventa per lui, ormai tornato bambino, la madre che non ha mai potuto essere, riversa il suo amore sempre uguale eppure diverso cercando di non perdere il filo tra la sua mente e quella di Lino, attraverso un linguaggio noto solo a chi si ama.

Avati trova la giusta misura e la delicatezza per raccontare una storia straziante, che altrimenti rischiava di cadere nel melodrammatico e nel patetico, mostrando un grande rispetto per chi la malattia la vive in prima persona o di riflesso. Bravi gli interpreti, la Neri invecchiata per esigenze di copione e sempre bellissima ci regala un’interpretazione intensa e misurata, ottima l’intesa con Bentivoglio, struggente e tenero. In entrambi, anche quando il loro rapporto moglie/marito si tramuta in una relazione madre/figlio,si percepisce l’intensità di persone adulte con il loro bagaglio di rimpianti e dolore e la complicità tra due amanti che pur di non perdersi, decidono di traslare il loro sentimento, trasferendolo in altro tempo, caricandolo di nuovo senso. La zia Amabile, interpretata da Serena Grandi rappresenta il ricordo più dolce per Lino, una sorta di fatina buona che cerca di ricomporre i cocci di un bimbo rimasto orfano. L’amarcord avatiano sembra percorrere tutto il film, anche nelle scene in cui non vi è rievocazione; questo forse perché l’amore e la sofferenza non hanno una dimensione spazio-temporale, come il sogno e il ricordo. Una Sconfinata giovinezza risente della forte impronta autobiografica del regista, qui anche sceneggiatore, che esprime il bisogno di guardare indietro per guardare oltre, di recuperare quell’ingenuità e quello stupore tipico della fanciullezza, e perdersi in quel territorio segreto che nessuno conosce perché è solo tuo. Quando Lino non riuscirà più a distinguere il presente dal passato, Chicca andrà a cercarlo tra gli amati colli, dove risuona ancora l’eco delle risate infantili, l’armonica del vecchio zio, l’abbaiare del cane. Ma se un fanciullo non vuole più tornare a casa sa dove nascondersi, perché ogni bambino ha un altrove impalpabile e inviolabile che nessuno conosce e che può sempre ritrovare.