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martedì 13 settembre 2011

Ricordi di Venezia 68



Che cosa ricorderò di questa 68esima edizione della Mostra Veneziana?

Il sorriso di Zio George, il guizzo di follia negli occhi della splendida Kate Winslet, la luce che emanava Madonna, la cordialità di Viggo mentre mi saluta stringendo la mascotte della sua squadra del cuore, la classe intramontabile di Al Pacino accompagnato dalla sua fatina rossa Jessica Chastain, il saluto rivoltomi da Re Colin in italiano, i sorrisetti complici tra Matt Damon e Gwyneth Paltrow, gli occhi assonnati e lividi post-sbornia di James Franco, la tenera timidezza di Adam Brody, la foto con Michael Fassbender, con in mano la sua Coppa Volpi, ebbro (e non solo di felicità!).

Dei film ricorderò la voce di Al Pacino alias Erode che chiede a Salome di danzare per lui, il volto espressivo di Deanie Yip in A simple life, i sassi della maledizione di Himizu e la folle corsa finale dei due ragazzini, David Bowie che canta Space Oddity in Eva, l'ipocondria post-Contagion, il primo piano di Ryan Gosling, il Freud di Viggo e il suo immancabile sigaro, la New York desolata e struggente di Carey Mulligan e Michael Fassbender, la carneficina tra Kate Winslet, Christoph Waltz, Jodie Foster, John C.Reilly e un malcapitato criceto...

Ricordo il primo giorno con Le Idi di Marzo, quando mi sono accorta di essermi seduta esattamente e casualmente dietro il mio mito, la Signora Paola Jacobbi di Vanity Fair, la donna che vorrei diventare, constatando quanto sia più bella e simpatica dal vivo e quanto si diverta guardando i film (e Ryan Gosling).

Ricordo l'emozione che puntualmente mi dà la Sala Grande, anche ora che è restaurata e appare diversa. Quando ci si alza in piedi ad applaudire il cast io rivedo Tim, Johnny e Helena...la prima volta nel 2007. La prima volta che avevo un pass sfigato e non sapevo nulla delle uscite laterali.

Ricordo solo ciò che mi ha emozionato...e ovviamente il Lido, una dimensione "altra" che mi accoglie ogni anno, da ben cinque anni, con premura e calore.
Ricordo il Bar Maleti e le sue deliziose colazioni, il Billa, il Cinese e "il punto di ritrovo" per eccellenza, La Tavernetta. Qui in questa striscia di terra, attorniata dal mare, sono nate amicizie indissolubili,legami che mi (ci) hanno cambiato la vita. Solo chi ha vissuto almeno una volta il tourbillon di emozioni tutto cinema, stelle, leoni e paillettes concentrati in undici incredibili giorni, può comprendere cosa provo e perché sogno che torni presto Settembre.

Tutto questo sparisce nella foschia pre-autunnale di Venezia, ogni anno verso la metà di settembre. Come fosse una magia. O forse lo è...

sabato 16 luglio 2011

Londra, in migliaia per dire addio a Harry Potter




http://www.filmakersmagazine.it/archives/5866
Dopo dieci anni di magia lo scontro finale tra Harry Potter e Voldemort ha sancito la fine della saga cinematografica più amata dei nostri tempi. Una battaglia a colpi di bacchetta in una decadente Hogwarts che per l’occasione si è trasformata in una fortezza invincibile.
«Harry aveva un viso sottile, ginocchia nodose, capelli neri e occhi verde chiaro. Portava un paio di occhiali rotondi, tenuti insieme con un sacco di nastro adesivo per tutte le volte che Dudley lo aveva preso a pugni sul naso. L’unica cosa che a Harry piaceva del proprio aspetto era una cicatrice molto sottile sulla fronte, che aveva la forma di una saetta».

Per farsi un’idea di quello che il maghetto mingherlino e occhialuto, partorito dalla mente geniale di J.K. Rowling, ha significato e significa per l’Inghilterra e per il mondo intero, bisognava trovarsi a Trafalgar Square in occasione della prima mondiale. Una schiera infinita e variegata di fans giunti da ogni dove per salutare Harry e i suoi inseparabili amici (e nemici).

Hanno campeggiato per giorni e notti da Trafalgar, la piazza più importante di Londra per la prima volta aperta a una prima cinematografica, a Leicester Square, sede del celebre cinema Odeon dove ha avuto luogo l’ultimo atto della saga potteriana.

Quella folla gremita ed emozionata cantava gioiosamente odi e inni in onore dei loro beniamini sotto ogni sorta di intemperie, quasi fosse una celebrazione religiosa. Testimone il cielo uggioso di Londra, con il Big Ben che scompariva nella foschia di un giorno speciale. Al di là dei numeri, seppur da capogiro, oltre 400 milioni di copie vendute tradotte in 69 lingue, otto adattamenti cinematografici con un record di incassi di oltre 6 milioni di dollari, questa è la vera magia.

Che una donna allora sconosciuta abbia smosso, con la sua fantasia con il suo talento creativo, il mondo intero, popoli di culture ed età differenti, in nome di una storia nata sulla carta e diventata di celluloide, ha dello straordinario e forse dell’irripetibile.

In Inghilterra Harry Potter è un credo, un culto, un’istituzione. E non esagero se dico che per molti la Rowling è la nuova Regina. Il fenomeno della Pottermania, per molti versi resta misterioso e incredibile, ma di sicuro sta in primis nell’abilità di una scrittrice che ha saputo intersecare il nostro mondo, quello dei “babbani” per intenderci, con un universo magico dove coabitano incanto e disincanto, forza e paura, ombre e luci. I personaggi non restano legati, come solitamente avviene nelle comuni storie fantasy, all’età dell’innocenza e dell’infanzia, ma crescono, diventano adulti con tutto quello che comporta “essere grandi” in un mondo dove magia non è solo potere. La Rowling ci ha dimostrato che verità e fantasia possono coesistere, che l’immaginazione non è una bugia o un’escamotage per eludere dalla realtà, ma piuttosto un altro modo di vedere il mondo, uno sguardo che sa cogliere anche l’invisibile, un pensiero divergente che ci fa scoprire abilità segrete e tuttavia ci riporta all’ordine e richiama in noi la coscienza, l’importanza delle nostre scelte.

Ron, Hermione, tutti i personaggi di Hogwarts e infine la Rowling con la sua “creatura” Harry si alternano sul palco a Trafalgar Square, ai limiti della commozione. Il piccolo Potter ha cambiato radicalmente le loro vite, li ha fatti crescere su un set che è diventato una seconda casa, una vera famiglia.

La splendida Emma Watson, ormai icona dello stile in Gran Bretagna, appare regale e magica in un abito principesco firmato Oscar de La Renta. Emozionata dice addio alla sua Hermione che considera parte di lei e che per molti versi, dichiara, le somiglia. Dell’esperienza ricorderà tutto, in particolare, le torture inflitte dalla perfida Bellatrix alias Helena Bonham Carter. Il “rosso” Rupert Grint, amico del cuore di Harry, ammette di sentirsi perso senza Ron.

L’addio a Harry e company viene suggellato dall’abbraccio della Rowling a Daniel Radcliffe, incarnazione della sua creatura di carta, con una promessa della stessa scrittrice che lascia una speranza nel cuore di milioni di fans: «è il mio bambino e se voglio farlo uscire di nuovo a giocare, lo farò».

Anche se la tagline della locandina di Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 (in sala in Italia dal 13/07) recita perentoria “It all ends”, quando c’è di mezzo la magia… è sempre tutto da vedere

Johnny Depp: due nuovi progetti Disney



http://www.doppioschermo.it/ultime-notizie/johnny-depp-accordo-con-la-disney-per-altri-due-film.html

Johnny Depp e la casa di produzione Infinitum Nihil, fondata in collaborazione con Christie Dembrowski, sorella dell’attore, ha concluso un accordo con la Disney per due nuovi film di cui ovviamente sarà protagonista. Il primo riguarda una versione cinematografica di The Night Stalker e un biopic dedicato a Paul Revere, patriota americano di cui si ricorda una memorabile cavalcata notturna nel 1775 per avvertire i suoi capi dell’arrivo delle truppe inglesi. The night stalker, invece, si rifà ad una vecchia serie televisiva del 1972 di cui fu fatto un remake qualche anno fa per la ABC, che si rivelò un flop. Depp ha regalato alla Disney un personaggio che è già leggenda, il Capitan Jack Sparrow, lo stralunato protagonista della saga plurimilionaria Pirati dei Caraibi. Al momento l’eclettico attore è impegnato sul set londinese di Dark Shadow, pellicola dalle atmosfere gotiche diretta dall’amico Tim Burton, che riprende una soap opera americana di vampiri, molto in voga negli anni ’60. Subito dopo Johnny sarà impegnato in un nuovo progetto disneyano The Lone Ranger diretto da Gore Verbinski in cui l’attore vestirà i panni dell’indiano Tonto.

mercoledì 4 maggio 2011

Edward compie 20 anni: l’omaggio del mondo dell’arte in una mostra-tributo


A vent’anni dal cult movie di Tim Burton, Edward mani di forbice, l’artista Sebastien Mesnard ha organizzato una mostra dedicata al film alla Nucleus Art Gallery di Alahmabra, California. Cinquanta artisti internazionali ricordano in dipinti, disegni, sculture e stampe la fiaba gotica burtoniana e i suoi indimenticabili personaggi. Il tributo è dedicato alla memoria dell’attore Vincent Price e del truccatore Stan Winston

di Cristina Locuratolo
cristina.elle@hotmail.it

Prima che lui arrivasse non si era mai vista la neve. A noi piace pensarlo così: in un antico maniero gotico circondato dal giardino segreto delle sue creazioni. Mentre con il ghiaccio modella sculture di una bellezza commuovente imbiancando le città di un candore magico. E ogni volta, come un miracolo che si rinnova, lui rivede la sua amata danzare tra quei fiocchi di neve.
Era il 1990 quando un allora meno noto Tim Burton partoriva la sua opera più personale: “un ragazzo con forbici per mani” che racchiude in sé tutta la malinconia e la solitudine di esseri straordinari e diversi, da Frankenstein, vero leit motiv della poetica burtoniana al mito germanico Struwwelpeter, fino al nostro Pinocchio. Edward Scissorhands, come tutte le creature leggendarie, supera brillantemente la dura prova a cui il tempo sottopone tutti, non sbiadisce ma acquisisce nuova forza nel ricordo.

A distanza di venti anni Edward ritorna alle sue origini: non tutti sanno che Burton concepì la sua creatura prima graficamente e poi come soggetto cinematografico, passando da un’immagine puramente visiva alla pellicola. L’idea di Edward, di questo uomo–collage, fatto di pezzi assemblati, sia in senso fisico che emotivo, prese vita nel corpo di Johnny Depp per poi diventare icona e ritornare a essere pura immagine.
Le forbici, simbolo dell’incapacità di comunicare, di “toccare” le cose, di amare senza ferire, vengono reinterpretate attraverso lo sguardo e la creatività di artisti contemporanei di provenienze diverse che rendono omaggio a Edward in una mostra-tributo alla Nucleus Art gallery di Alahmabra (California, fino al 9 maggio 2011), organizzata da Sebastien Mesnard. Ho contattato personalmente gli artisti per parlare di questo progetto, del film e del ritorno di Edward all’immagine.

Alina Chau, Clément Lefèvre, Jérémie Fleury, Laura Iorio, Roberto Ricci, Rozenn Bothuon, Nicolas Duffaut sono alcune delle menti creative che hanno preso parte a questa grandiosa opera omaggio. Una varietà di stili in un caleidoscopio di colori, emozioni, ricordi e suggestioni esprimono la bellezza e la contraddittorietà di Edward, la tragicità dell’esserci in un mondo estraneo, la malinconia e la poesia di un amore impossibile, la non corrispondenza tra la propria esteriorità e interiorità, l’incompletezza e la mancanza, il senso di inadeguatezza, la magia di un altrove impalpabile dove i sogni restano intatti e inalterati. Da Kandisky ai manga giapponesi, da Chagall alla Pop Art, l’opera omaggio pullula di richiami, rimandi, simboli attraverso scelte pittoriche differenti.


Alina ha scelto di rappresentare il giardino di Edward perché esso – dice – è come uno specchio, riflette l’interiorità del personaggio e per questo, a suo parere, è l’elemento più poetico del film. Il giardino è anche uno spazio senza tempo, un non luogo che riporta Alina ai ricordi dell’infanzia.
Nicolas sin da piccolo era attratto dal mondo gotico e dalle sue figure dark. Ha scelto di raffigurare l’amore impossibile tra Edward e Kim, concentrandosi sul momento della separazione e sull’oggetto emblema della loro relazione: la sfera di neve. Sulle note della celestiale colonna sonora di Danny Elfmann, l’artista ha concepito un’opera simbolica sull’immortalità del vero amore.

Rozenn si è concentrata sulle forbici, le ha inserite in un contesto che rimanda all’infanzia creando delle Paperdolls di Edward e Kim. Le piaceva l’idea che i personaggi prendessero vita dalla carta, sottolineando il legame con lo stesso Edward che in una scena del film crea una ghirlanda di carta. Le forbici di Edward hanno una funzione creativa e non distruttiva, a ferirci è l’intolleranza, la malevolenza e l’egoismo della gente del villaggio che rappresenta il mondo in generale.

Laura, grande fan dell’opera di Burton che considera un Maestro, ha voluto descrivere un attimo di complicità tra Edward e la sua amata, dove i due sono felici, anche se negli occhi di lui alberga sempre la tristezza di chi sa che è diverso e non potrà vivere una vita normale.
Una scena romantica che racchiude il senso di un amore profondo e poetico ma sempre attraversato da una vena di malinconia. Lo sguardo innocente e insicuro di Edward riporta anche Laura ai tempi dell’infanzia, quando era una bambina solitaria e introversa che guardava il mondo dal suo piccolo angolo sicuro.

Roberto è sempre stato affascinato dal lato freak di Edward. Un “mostro” più umano degli umani che lo temono. Nella sua opera, da un lato ha voluto rappresentare le origini di Edward, la sua creazione, quindi i robot e la catena di montaggio, elementi ricorrenti nella filmografia burtoniana. Dall’altro, invece, ha descritto il personaggio in sé e la sua poesia, un essere privato dell’amore paterno che tiene stretto tra le sue strane mani il cuore di biscotto, simbolo dell’affetto che sempre lo legherà al suo padre-creatore.

Tutti gli artisti hanno ritrovato in Edward una parte di loro stessi, quella più intima e delicata che riporta alla purezza, all’innocenza, allo stupore e all’amore incondizionato di quando si è bambini. A riprova del fatto che l’opera burtoniana riesce a catapultarci ogni volta in una dimensione altra, tra memoria e immaginazione, sogno e realtà, aprendosi a una miriade di possibilità di interpretazione e rielaborazione. Ogni opera ha saputo restituire vitalità a un personaggio entrato di diritto nell’immaginario collettivo grazie alla sua straordinaria bellezza ed umanità, reinventandolo ma lasciandolo ancorato al suo mondo perso nel tempo e nello spazio della proiezione cinematografica.

giovedì 17 marzo 2011

Nightmare Before Christmas: Un incubo di plastilina


Nightmare Before Christmas è un film-cartoon realizzato in stop-motion, la cosidetta tecnica "a passo uno". Pur non essendo stato girato da Tim Burton ma da un suo collega, Henry Selick, la pellicola è un vero è proprio manifesto artistico della poetica burtoniana. Il mondo dark e goticheggiante di Halloweentown popolato da mostriciattoli ed esseri orribilanti di ogni sorta si confronta con quello colorato e allegro di Christmastown abitato da gnomi e folletti operosi. Il segreto del Natale ci viene così svelato tramite la magia di due universi paralleli, magia che si presenta sotto forma di musical. Le canzoni composte da Danny Elfmann compenetrano la storia, ne sono parte integrante. Un carosello di spettri si presenta ai nostri occhi in danze macabre attraversate da dubbi amletici,sentimenti d'amore, riflessioni sulla vita e sulla morte. Un incubo romantico come un sogno, adatto a tutti, una fiaba postmoderna da raccontare, non solo a Natale.

venerdì 4 marzo 2011

RANGO



Un piccolo eroe western dalla “pellaccia” dura e multicromatica con la voce e il fascino di Johnny Depp. Geniale rivisitazione del regista Gore Verbinski del genere western in chiave cartoonistica. Imperdibile.


Una piccola lucertola vive come un animale domestico tra le pareti di vetro di un terrario, ha per fidanzata una Barbie menomata e come “coperta di Linus” un pesciolino giocattolo. Assillato da dubbi amletici e crisi d’identità, si trova letteralmente scaraventato nell’arido deserto del Majave, dove vaga fino al selvaggio West: Dirt, un cittadina polverosa e piena di guai. La città è in declino per via della mancanza di acqua e i suoi abitanti hanno bisogno di credere in qualcosa, un miracolo o un eroe che possa risollevare le loro tristi sorti.

La lucertola dà sfogo alla sua camaleontica natura e alle velleità attoriali e si reinventa, fingendosi un leggendario avventuriero dal grilletto facile e il cuore coraggioso: Rango.

Gore Verbinski inaugura una formula vincente che coniuga un genere “duro” come il western ai cartoon tradizionali: nella caratterizzazione di Rango c’è lo zampino del “camaleontico” Johnny Depp a cui il regista si è ispirato per creare il personaggio. Molte le analogie tra Rango e Depp: entrambi sono spiriti liberi, sono attori che amano interpretare ruoli grandiosi e forse ambedue non sono del tutto sicuri di essere quello che sono, avendo a disposizione molteplici facce e anime.

Guardando il verde eroe si può facilmente riconoscere la famosa “allure” di Jack Sparrow, pirata disneyano che ha segnato il sodalizio artistico tra Depp e il regista. E i più attenti noteranno una citazione di Paura e Delirio a Las Vegas in una scena del film, ma se vogliamo anche nell’idea di un viaggio spirituale tra realtà e allucinazione.

Una vasta gamma di personaggi avanza, ognuno con la propria storia, nella cittadina cadente dando ad essa un respiro reale e un senso di eternità, come se Dirt esistesse da sempre e, nel contempo, potesse cessare di esistere all’improvviso per la mancanza di un bene così vitale come l’acqua.

Oltre Rango c’è Borlotta (Isla Fisher), la lucertola che si blocca nei momenti meno opportuni, Priscilla (Abigail Breslin) la piccola topina dispettosa, Carcassa (Alfred Molina), l’armadillo che diventa la guida spirituale del protagonista, il Sindaco corrotto con le sembianze da tartaruga (Ned Beatty), solo per citarne alcuni. Colpo di genio: i quattro gufi mariachi che cantano le gesta dell’eroe, annunciandone erroneamente più volte la morte.


Rango è un personaggio che mette d’accordo grandi e piccini, non si può non amare perché è un mix di assurdità: goffo e leggendario, sotto la pelle di lucertola sembra avere un cuore umano.

C’è un’energia vibrante in questo film che pur rispettando pienamente i codici del genere western alla John Ford e dell’animazione classica tra gag e inseguimenti alla Looney Tunes, spazia tra la slapstick comedy al romanticismo, dalla comicità all’umorismo più sofisticato.

La magia di Rango non scaturisce solo nella storia, nei personaggi ben assortiti o nell’ambientazione, ma risiede gran parte nella tecnica utilizzata.

Verbinski parla di “emotion capture”, un esperimento che ha trasformato il set in un grande laboratorio teatrale dove di fatto ogni attore recitava con il costume di scena, simulando le azioni dei personaggi del cartoon, consentendo così al regista di catturare il naturale sentimento della recitazione attraverso lo sguardo, il corpo, la mimica e la gestualità di ogni componente del cast per poi trasferirlo nei personaggi animati.

La dimensione del viaggio di Rango è epica e spirituale: il camaleonte salva la città e ritrova se stesso e il suo posto nel mondo, da outsider diviene leggenda. Il deserto come metafora della vita: un affascinante luogo di pericolo, di introspezione e di esplorazione in cui bisogna perdersi per ritrovarsi, per rispondere alla fatidica domanda esistenziale “Chi sono io?”. Ad una metamorfosi corporale, la mutevolezza cromatica della pelle di un camaleonte, corrisponde un rinnovamento spirituale.

Le carte vincenti di Rango sono tante, ma forse l’asso nella manica è proprio la gioiosa scoperta con cui si conclude: proprio perché si può essere qualsiasi cosa, si sceglie di essere quello che si è, scoprendo magari di avere la “pelle” di un eroe.

venerdì 25 febbraio 2011

Rango, il wild west d’animazione



A pochi giorni dalla premiere losangelina, il regista Gore Verbinski e la giovane attrice Abigail Breslin presentano a Roma il film d’animazione Rango, camaleonte eroe per caso, con la voce (nella versione originale) e le espressioni di Johnny Depp. Del resto, squadra che vince non si cambia e il regista del primo episodio della fortunata saga piratesca di Jack Sparrow firmata Disney, potrebbe bissare il successo con Depp, perfettamente a suo agio nella pelle di una lucertola. Rango verrà distribuito a partire dall’11 Marzo in 450 sale cinematografiche italiane. Il regista Gore Verbinski e l’attrice Abigail Breslin hanno incontrato la stampa e soddisfatto tutte le curiosità riguardo l’eroe camaleontico, immerso in un “wild west” bizzarro e ricco di sorprese.

Cosa l’ha portata a realizzare questo cartoon così particolare e da cosa è dipesa la scelta musicale?

G.V.: «Non credo che l’animazione sia un genere, piuttosto la considero una tecnica. Quello che mi ha affascinato in Rango è stata soprattutto la storia, così bella da raccontare. Ecco, ci è sembrato il tempo giusto per proporla. Penso che la pellicola sia un’opera che ci farà riflettere. Guardiamo il protagonista, l’eroe. È interessante che sia un camaleonte e soprattutto che sia un attore, uno che crede che la vita sia un enorme palcoscenico. Volevamo un personaggio diverso, uno che ha sfaccettature e crisi esistenziali. Era lui il nostro timone. È dalla ricerca d’identità di Rango che abbiamo costruito tutto il film. E mi fa piacere che il risultato finale sia un qualcosa di completamente diverso rispetto ai classici canoni del film d’animazione. Spiace dirlo ma in certi casi ci troviamo davanti a prodotti che sembrano degli Happy Meal confezionati a uso e consumo di mamme e bambini. Ancora non riesco a capire quanto la nobile arte di Ralph Bakshi e Ray Harryhausen abbia iniziato a peggiorare. È stato positivo non avere un’esperienza pregressa, così siamo riusciti a dare grande complessità ai personaggi. Sono sempre stato convinto che Rango non avrebbe potuto mai essere un film tradizionale, perché le classiche espressioni non avrebbero potuto esprimere la profondità del viaggio interiore che compie il protagonista. Il primo anno e mezzo di lavorazione lo abbiamo passato facendo una vera e propria jam session con disegno a matita e voci. La musica, invece, proviene da un mio amico delle superiori. Mi sono ricordato della canzone che cantava quando eravamo più giovani e al momento della realizzazione del film mi è tornato in mente quel ritornello».

Rango non è solo un cartoon ma anche un western

G.V.: «Io volevo proprio celebrare il linguaggio del western. In questo sono stato aiutato anche dalla musica e più in generale dai suoni che per me sono fondamentali. Mi sono chiesto molte volte come sarei riuscito a rendere contemporaneo un genere così particolare. In poche parole avrei dovuto essere innovativo e classico al tempo stesso. Così ho tratto ispirazione da Sergio Leone. E anche dai cartoon di Tex Avery. Ecco, quando penso ai film d’animazione non penso certo ai cartoni animati, ma in questo caso alcuni elementi esilaranti hanno proprio come riferimento i cartoon. Non mancano però gli aspetti più seri. Ogni personaggio ha una storia dietro di sé, magari non la raccontiamo ma sappiamo che è successo qualcosa, come al povero coniglio che ha perso l’orecchio».

Secondo lei perché adesso il western è tornato di moda? Il riferimento è al Grinta dei fratelli Coen…

G.V.: «È una coincidenza interessante. Forse il western è il modo più pulito per raccontare una fiaba. Forse le nostre vite sono diventate così piene e complesse che solo nel deserto del far west possiamo fare chiarezza su di noi e rispondere a certi interrogativi. Ad esempio, quando ci siamo arresi? Quando abbiamo abbandonato la nostra individualità in nome dello sviluppo? Forse ognuno di noi, grazie a questo genere così peculiare, torna indietro a quando tutto era più semplice. Il western è stata la giusta chiave per rendere introspettiva la storia di Rango, che è diventata la figura adatta a raccontare questo percorso».

Le riprese per gli animatori di computer grafica sono state effettuate mentre recitavate tutti insieme in costume in un teatro. Com’è recitare in questo modo, scorporandosi da se stessi?

A.B.: «È molto diverso da quando si gira e si doppia un film d’animazione, è una sorta di live action movie, per noi è stato più facile e ci siamo divertiti vedendo noi stessi immersi nel contesto di Rango».

Queste riprese del backstage si potranno vedere? Magari nell’edizione speciale in home video?

G.V.: «È parte del processo di creazione, il video non è perfetto per essere digitalizzato e messo in commercio, è un prodotto fabbricato».

A.B.: «Potrebbe essere divertente ma anche stancante vedere la camera e il microfono sulla faccia degli attori costantemente per tutto il tempo della ripresa».

Non pensa che per un film d’animazione Rango raccolga in sé troppe citazioni?

G.V.: «Come una lasagna, il film ha molti strati, è su più livelli, anche se non tutti hanno riferimenti storici per una determinata citazione, rivolta maggiormente ai cinefili, è bello vedere le diverse reazioni in sala quando scende il buio».

Com’è stato collaborare più volte con Johnny Depp? Cosa le ha fatto desiderare di trasformare Johnny Depp in qualcosa che vada oltre il corpo?

G.V.: «Con Johnny siamo amici ed è bello lavorare con un vecchio amico. Anzi, il personaggio di Rango è stato fatto su misura per lui. Il regista e l’attore devono avere un rapporto speciale perché così si può scoprire quel qualcosa di inaspettato che un interprete può dare. Allora sì che può diventare coraggioso nella sperimentazione di cose nuove. Un regista poi deve sorprendere l’attore, è questa la vera sfida che noi raccogliamo quando facciamo un film. Adoro lavorare con lui ed è divertente scoprire qualcosa di inaspettato, quando arrivi a un certo punto vuoi spingerti oltre e provare qualcosa di diverso, come nel caso della trasformazione di Johnny in un cartone animato».

Nel film utilizza un simbolismo che allude ad una dimensione spirituale: la ricerca dell’acqua, la metamorfosi del camaleonte… Sono riferimenti voluti o casuali?

G.V.: «Quello di Rango è di sicuro un viaggio in cerca di una identità. Certo, avevamo bisogno di una storia per questo personaggio. Una storia che ha più strati, più livelli, in modo che ognuno possa identificarsi».

È vero che sta pensando a un nuovo progetto con Johnny Depp, il film The Lone Ranger?

G.V.: «Sì, stiamo in fase di scrittura della sceneggiatura».

Avete lavorato in modo completamente diverso rispetto a un film d’animazione “classico”?

A.B.: «Sì, non eravamo nella classica sala di registrazione, davanti allo schermo cercando di rientrare nei tempi previsti con le nostre battute, ma abbiamo recitato tutti insieme. Sembrava davvero di stare in un film d’azione, perché si poteva recitare guardando la reazione dell’altro, come si muoveva, con un risultato finale molto naturale. Posso dire davvero che a un certo punto mi ero proprio scordata di essere in un film d’animazione, ed è stata un’esperienza straordinaria».

G.V.: «I venti giorni di registrazione sono stati il vero spettacolo del film. Era bello vederli recitare tutti insieme».

E del tuo personaggio cosa ci dici, ti somiglia un po’?

A.B.: «Lei non è decisamente il personaggio più glamour del mondo, è diversa da tutti gli altri e l’ho interpretata esattamente come pensavo che fosse. Per questo le ho anche dato l’accento del sud. All’inizio era un carattere piuttosto oscuro e non si lasciava ben comprendere, ma è molto diversa da come sono io».

Priscilla non è il prototipo della bellezza, così come gli altri personaggi. Che effetto ti fa tutto questo?
A.B.: «Questa è stata la cosa meravigliosa dei personaggi del film. È vero, in genere negli altri film d’animazione i protagonisti sono tutti carini. Qui, invece, sono brutti, ma sono anche buffi e bizzarri e nonostante il loro lato oscuro sanno essere molto dolci».

L’animazione non è un genere ma un mezzo, parlando di mezzi ha nei suoi progetti di usare la stereoscopia 3D?

G.V.: «Posso utilizzare qualsiasi mezzo per la narrazione cinematografica, in Rango l’ho utilizzata perché pensavo che mancasse effettivamente una dimensione al racconto se lo avessi narrato in 2D. Non lo sento comunque necessario alla narrazione».

Nel film c’è molta morte, cosa a cui i bambini non sono abituati, ma è una antitesi, quella della morte e della vita, spesso usata nel genere western, come si possono conciliare queste due realtà diverse?

G.V.: «In realtà non è poi così drastica la dicotomia, ad esempio in Bambi uccidono la mamma, la morte non è qualcosa di innovativo nelle narrazioni per bambini. Per ciò che concerne il western ero affascinato quando lo guardavo da bambino, vedere i ragazzi reagire in maniera entusiasta a questo genere, capendo anche la distinzione fra vita e morte è una cosa positiva. Per me non è un problema trattarlo in questo modo, sono cose che esistono intorno a noi».

Quali sono i vostri referenti di animazione tradizionali?

A.B.: «Sicuramente La Sirenetta, quando ero più piccola. Mi sembrava di essere lei. Ho amato Toy Story 3, Cattivissimo me, Rapunzel, anche se quest’ultimo non sono riuscita a finire di vederlo ma non ricordo perché. Un mio amico dice che l’animazione è quello che tiene le persone giovani, non lo so, ma penso sia così!»

G.V.: «Miyazaki mi ha affascinato con la sua logica sognante, io sono affascinato dalla possibilità di poter realizzare tutto con questo genere di animazione».

La tua è stata la gavetta dei cosiddetti bimbi prodigio. Quanto è stato difficile per te sopportare il peso di una simile responsabilità?

A.B.: «È indubbio che ti senti sotto pressione, lo ammetto. Ma se pensi che al mondo ci sono cose più serie, tutto si ridimensiona un po’».

Sei stata candidata all’Oscar per Little Miss Sunshine, e quest’anno in lizza per una statuetta ci sono due giovani attrici come Hailee Steinfeld e Jennifer Lawrence. È un caso o le parti migliori arrivano proprio in questa fascia d’età?

A.B.: «Io penso che ci siano grandi ruoli ad ogni età. Certo, più si cresce e più si hanno possibilità di fare cose importanti. Per esempio, se mi chiamasse Danny Boyle andrei di corsa. Ho amato alla follia The Millionaire».

sabato 12 febbraio 2011

Burlesque


Nonostante qualche nota positiva, Burlesque resta un’occasione sprecata per Antin che di sicuro non si è impegnato abbastanza affinché il suo film diventasse un musical cult, ma ha solo dimostrato una viscerale ammirazione per la platinata Christina

Ugola d’oro e bellezza vamp alla Marilyn Monroe, la star d’oltreoceano Christina Aguilera, 100 milioni di dischi venduti e 5 Grammy vinti all’attivo, debutta sul grande schermo tra i lustrini, i bustier e le guêpières del Burlesque losangelino. In realtà, la Aguilera vantava già un’apparizione canterina nel musical cult Moulin Rouge firmato Baz Luhrmann, dove si è resa indimenticabile con la sua strepitosa interpretazione di Lady Marmalade. La storia ripete i topoi narrativi più classici della scaltra e talentuosa ragazza di provincia che sogna di sfondare nella grande città. E proprio inseguendo il suo sogno che Ali/Aguilera si troverà a lavorare come cameriera al Burlesque Lounge di Sunset Boulevard, un locale in declino gestito dall’autoritaria Tess/Cher. Il Burlesque Lounge per la giovane e bella Alì sarà un po’ come la tana del Bianconiglio per Alice; il mondo meraviglioso e spettacolare che le si rivela, la catapulta in una dimensione alternativa e magica, dove acquisisce più consapevolezza di se stessa e mette alla prova il suo talento. Il palcoscenico è lo spazio incantato dove i desideri diventano realtà, e sebbene la Aguilera sia impeccabile nelle sue performances siamo lontani dalle atmosfere e suggestioni burlesque che il regista Steve Antin intendeva riprodurre. Non a caso si parla di “arte del burlesque” che un tempo confuso con il semplice strip-tease della Parigi ottocentesca, è in realtà un genere di spettacolo nato nell’Inghilterra vittoriana e importato successivamente in America, il quale si configura come uno show completo, cantato e ballato, dove comicità e sensualità si mescolano e i momenti osé non diventano mai volgari, semmai parodistici. Attualmente abbiamo assistito ad una riscoperta di questo genere nella nostra cultura, il cosìdetto “new burlesque”, tra i cui artisti spicca per popolarità la conturbante Dita Von Teese.

Il film, dunque, fallisce come omaggio al burlesque e anche come musical, in quanto i dialoghi sono solo da contorno e le canzoni non compenetrano nella narrazione, ma rappresentano momenti a se stanti che puntano i riflettori sulla star e annullano il resto. La sceneggiatura è di una banalità a tratti sconcertante e il bel tenebroso con l’eyeliner Cam Gigandet è l’unica nota veramente sexy dell’intero spettacolo.

E’ da considerarsi riuscitissimo invece, e risulta anche piacevole, se lo si vede come un “one-woman-show”, un pretesto per godere di una esibizione di due ore dove la bionda Christina non si risparmia, cambia abiti, parrucche e tonalità, mostrandosi in tutto il suo splendore e la sua bravura. Piccolo show anche per la diva Cher, poco espressiva durante tutto il film tranne che durante la sua performance canora (la ballata “You Haven’t Seen The Last of Me”, premiata ai Golden Globes). Tutta la musica di Burlesque è comunque degna di nota, e molti brani resteranno indimenticati. Spassosa la prova di Stanley Tucci che, dopo Il Diavolo veste Prada, è di nuovo a servizio delle donne e della moda, questa volta nei camerini del Burlesque Lounge. Divertente il cameo di James Brolin,marito di un’altra superstar, Barbra Streisand.

Nonostante qualche nota positiva, Burlesque resta un’occasione sprecata per Antin che di sicuro non si è impegnato abbastanza affinché il suo film diventasse un musical cult, ma ha solo dimostrato una viscerale ammirazione per la platinata Christina, la quale va ad aggiungere un’altra e meritatissima standing ovation ad una vita costellata di successi e adornata di piume e paillettes.