
«Non sono cresciuto in una città d’arte europea, ma nel sobborgo della plastica e dei videoclip. I film horror guardati in televisione sono state le mie favole di bambino senza nonna». Così parla di sé, Tim Burton, autore postmoderno, divenuto fenomeno di culto, per la capacità creativa di attingere dal cinema del passato un fondo comune di immagini, mescolando i classici con la cultura pop, attraverso un’opera di riciclaggio dei materiali più vari della cultura di massa.
Il cineasta californiano ha prodotto un corpus di opere singolarmente personale, contrassegnate da uno stile visionario inconfondibile, seppur entro gli ambienti convenzionalmente commerciali dell’establishment hollywoodiano. La prospettiva cinematografica di Burton è la sua prospettiva, ogni singola componente dei suoi film è permeata dal suo sguardo e abitata dallo spettro della sua infanzia tormentata e triste.
Gli aspetti salienti della sua produzione sono da ritrovarsi e nella forma e nel contenuto: l’estrema cura nella composizione delle immagini, in ogni singola inquadratura, sin dai titoli di testa, l’uso simbolico del colore, un gusto espressionista, il costante richiamo al goticheggiante e al meraviglioso, i leit-motiv di Danny Elfman e l’ossessivo interesse per certi topoi tematici, quali gli outsiders e i freaks, inevitabilmente connessi al “mito” della sua infanzia, sono tutti elementi che danno vita alla rappresentazione burtoniana in un gioco di rimandi e allegorie in una visione estremamente soggettiva, immaginativa e immaginifica della realtà.
Nato il 25 Agosto 1958 a Burbank, quintessenza del sobborgo californiano anni Trenta, nonché sede storica degli studios di animazione della Walt Disney, Tim sviluppa sin da giovanissimo la passione per il disegno e per il cinema, sopratutto i film di serie B (non a caso dedica un suo film ad Ed Wood, considerato “il peggior regista del mondo”), quelli giapponesi (Godzilla), il cinema trash messicano, gli horror movies, i cartoons con una predilezione particolare per le animazioni stop-motion di Ray Harryhausen.
Certi miti infantili, quali Vincent Price, e l’influenza del mezzo televisivo, provocano in lui una sorta di nostalgia per gli “scarti” dell’industria culturale che vengono così riproposti, attraverso un lavoro di riciclaggio e assemblaggio, nei suoi film. Il cinema di Burton è caratterizzato dall’eterna lotta tra una cultura di massa, americana, e una cultura neo-romantica, più europea; opposte visioni che si sintetizzano e riconciliano in una rappresentazione sì personale ma che attinge a miti dell’infanzia, a volte dark, a volte colorati, e ad archetipi dell’immaginario collettivo.
Tutti i film di Burton esprimono la persistenza di una poetica e una fantasia visionaria: il ritorno costante di tematiche, figure, locations e simbologie, unito a una raffinata ricerca stilistica nel design dell’immagine; un’aspra denuncia, seppur venata di umorismo, alla società contemporanea, in particolare alle istituzioni; l’amore per un certo cinema del passato, da quello espressionista ai B-movie, dai film dell’orrore anni Cinquanta a quelli indipendenti di Roger Corman, e le influenze, non propriamente cinematografiche, quali le animazioni stop-motion (la cosidetta tecnica passo-uno ripresa in molti dei suoi film), le fiabe illustrate del Dott.Seuss (il suo How the Grinch stole Christmas ricorda molto Nightmare Before Christmas), ma anche i vecchi cartoons delle Silly Simphonies, che marchiano indelebilmente la poetica, lo stile, le tecniche dell’autore.
Il tema della morte, i sogni cimiteriali (Corps Bride), gli outsiders (Batman, Sweeney Todd), i mostri frankensteiniani (Frankweenie, Edward Scissorhand) racchiusi in città crepuscolari ipermoderne o antiche dimore dal fascino europeo, danno vita al mondo gotico del regista, in bilico tra vita reale ed immaginazione.
Burton usa l’escamotage della fiaba, punto di incontro tra contingenza e straordinario, per esplorare la realtà, filtrandola attraverso il suo sguardo infantile. Trasforma la sua triste e solitaria infanzia, trascorsa in un sobborgo californiano, in una cupa leggenda in cui le fantasie e i sogni dark di un bimbo incompreso diventano una straordinaria realtà atemporale, abitata da spettri bizzarri o malinconici freak dall’animo delicato e sensibile.
Storie surreali si svolgono in un tempo circolare, sconfinano in mondi paralleli, fluttuano in uno spazio che più che fisico è mentale, varcando soglie sospese tra il Bene e il Male, la Vita e la Morte.
I film di Burton esprimono l’idea di un ricordo, rievocano memorie personali ed universali, attingono simboli e personaggi da un immaginario collettivo.
La fiaba consente a Burton di trasfigurare in chiave mitica la propria esperienza personale e la realtà circostante, consentendogli di rappresentare, tramite l’allegoria e la metafora, le contraddizioni del mondo contemporaneo, e la frattura insanabile tra l’individuo e la società.
Il cineasta si pone come un attento testimone del proprio tempo; i suoi personaggi sono pervasi da un sentimento di alienazione, riflettono un disagio esistenziale, sono impegnati nella ricostruzione di una identità frantumata, alla ricerca di un qualcosa che li completi, che li renda umani, che elimini quel malinconico senso di inadeguatezza.
Scheletri senza occhi, bambini-robot, cani-zombie, spose dell’aldilà che ricordano con nostalgia la vita, sono al centro del mondo burtoniano, che quasi sempre è in collisione con l’altro mondo, quello reale, quello che emargina, che non lascia spazio alla creatività e ci priva della libertà di essere quello che si vuole essere, di distinguerci dalla massa informe.
La bellezza di questi esseri solitari non si rivela nell’apparenza ma nella sostanza, matura dalla sofferenza e resta intatta, come congelata nel tempo.
Le storie burtoniane si intrecciano su un unico filo conduttore che è Tim stesso; l’immaginazione tesse la realtà, ci fa comprendere che la nostra esistenza è composta della «stessa materia di cui sono fatti i sogni», per usare un’espressione shakespeariana.
Realtà e fantasia sono espresse non come categorie ontologiche separate e distinte, ma come livelli sovrapponibili ed interscambiabili; il cinema è il mezzo attraverso il quale questa sovrapposizione è possibile. L'opera burtoniana non attinge al reale, ma ricerca l’universale e la fiaba diventa strumento di questa ricerca, essa si configura come un “altrove impalpabile” ma anche come mediazione, un processo di simbolizzazione nel quale l’individuo sperimenta che la realtà interna è trasformabile in senso.
Edward, Jack, Emily, Sally, solo per citare alcuni personaggi, sono espressione visiva, nel loro splendore e nella loro fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell’esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.
Il mondo eccentrico e vibrante di Tim gravita verso la passione e la forza della narrazione, del cinema, dell’immaginario, della rêverie, senza fare troppe distinzioni tra questi elementi. Ci offre dei frammenti di vite singolari, degli scenari quotidiani e surreali nel contempo, in cui è sempre possibile intravedere un eterno ragazzo, fragile ed introverso, dai capelli arruffati, che vive al confine tra la il possibile e l'immaginabile, tra il tempo nostalgico della memoria e quello circolare della fiaba.




