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giovedì 29 aprile 2010

Tim Burton e la fabbrica dei sogni


«Non sono cresciuto in una città d’arte europea, ma nel sobborgo della plastica e dei videoclip. I film horror guardati in televisione sono state le mie favole di bambino senza nonna». Così parla di sé, Tim Burton, autore postmoderno, divenuto fenomeno di culto, per la capacità creativa di attingere dal cinema del passato un fondo comune di immagini, mescolando i classici con la cultura pop, attraverso un’opera di riciclaggio dei materiali più vari della cultura di massa.

Il cineasta californiano ha prodotto un corpus di opere singolarmente personale, contrassegnate da uno stile visionario inconfondibile, seppur entro gli ambienti convenzionalmente commerciali dell’establishment hollywoodiano. La prospettiva cinematografica di Burton è la sua prospettiva, ogni singola componente dei suoi film è permeata dal suo sguardo e abitata dallo spettro della sua infanzia tormentata e triste.

Gli aspetti salienti della sua produzione sono da ritrovarsi e nella forma e nel contenuto: l’estrema cura nella composizione delle immagini, in ogni singola inquadratura, sin dai titoli di testa, l’uso simbolico del colore, un gusto espressionista, il costante richiamo al goticheggiante e al meraviglioso, i leit-motiv di Danny Elfman e l’ossessivo interesse per certi topoi tematici, quali gli outsiders e i freaks, inevitabilmente connessi al “mito” della sua infanzia, sono tutti elementi che danno vita alla rappresentazione burtoniana in un gioco di rimandi e allegorie in una visione estremamente soggettiva, immaginativa e immaginifica della realtà.

Nato il 25 Agosto 1958 a Burbank, quintessenza del sobborgo californiano anni Trenta, nonché sede storica degli studios di animazione della Walt Disney, Tim sviluppa sin da giovanissimo la passione per il disegno e per il cinema, sopratutto i film di serie B (non a caso dedica un suo film ad Ed Wood, considerato “il peggior regista del mondo”), quelli giapponesi (Godzilla), il cinema trash messicano, gli horror movies, i cartoons con una predilezione particolare per le animazioni stop-motion di Ray Harryhausen.

Certi miti infantili, quali Vincent Price, e l’influenza del mezzo televisivo, provocano in lui una sorta di nostalgia per gli “scarti” dell’industria culturale che vengono così riproposti, attraverso un lavoro di riciclaggio e assemblaggio, nei suoi film. Il cinema di Burton è caratterizzato dall’eterna lotta tra una cultura di massa, americana, e una cultura neo-romantica, più europea; opposte visioni che si sintetizzano e riconciliano in una rappresentazione sì personale ma che attinge a miti dell’infanzia, a volte dark, a volte colorati, e ad archetipi dell’immaginario collettivo.

Tutti i film di Burton esprimono la persistenza di una poetica e una fantasia visionaria: il ritorno costante di tematiche, figure, locations e simbologie, unito a una raffinata ricerca stilistica nel design dell’immagine; un’aspra denuncia, seppur venata di umorismo, alla società contemporanea, in particolare alle istituzioni; l’amore per un certo cinema del passato, da quello espressionista ai B-movie, dai film dell’orrore anni Cinquanta a quelli indipendenti di Roger Corman, e le influenze, non propriamente cinematografiche, quali le animazioni stop-motion (la cosidetta tecnica passo-uno ripresa in molti dei suoi film), le fiabe illustrate del Dott.Seuss (il suo How the Grinch stole Christmas ricorda molto Nightmare Before Christmas), ma anche i vecchi cartoons delle Silly Simphonies, che marchiano indelebilmente la poetica, lo stile, le tecniche dell’autore.

Il tema della morte, i sogni cimiteriali (Corps Bride), gli outsiders (Batman, Sweeney Todd), i mostri frankensteiniani (Frankweenie, Edward Scissorhand) racchiusi in città crepuscolari ipermoderne o antiche dimore dal fascino europeo, danno vita al mondo gotico del regista, in bilico tra vita reale ed immaginazione.

Burton usa l’escamotage della fiaba, punto di incontro tra contingenza e straordinario, per esplorare la realtà, filtrandola attraverso il suo sguardo infantile. Trasforma la sua triste e solitaria infanzia, trascorsa in un sobborgo californiano, in una cupa leggenda in cui le fantasie e i sogni dark di un bimbo incompreso diventano una straordinaria realtà atemporale, abitata da spettri bizzarri o malinconici freak dall’animo delicato e sensibile.

Storie surreali si svolgono in un tempo circolare, sconfinano in mondi paralleli, fluttuano in uno spazio che più che fisico è mentale, varcando soglie sospese tra il Bene e il Male, la Vita e la Morte.

I film di Burton esprimono l’idea di un ricordo, rievocano memorie personali ed universali, attingono simboli e personaggi da un immaginario collettivo.

La fiaba consente a Burton di trasfigurare in chiave mitica la propria esperienza personale e la realtà circostante, consentendogli di rappresentare, tramite l’allegoria e la metafora, le contraddizioni del mondo contemporaneo, e la frattura insanabile tra l’individuo e la società.

Il cineasta si pone come un attento testimone del proprio tempo; i suoi personaggi sono pervasi da un sentimento di alienazione, riflettono un disagio esistenziale, sono impegnati nella ricostruzione di una identità frantumata, alla ricerca di un qualcosa che li completi, che li renda umani, che elimini quel malinconico senso di inadeguatezza.

Scheletri senza occhi, bambini-robot, cani-zombie, spose dell’aldilà che ricordano con nostalgia la vita, sono al centro del mondo burtoniano, che quasi sempre è in collisione con l’altro mondo, quello reale, quello che emargina, che non lascia spazio alla creatività e ci priva della libertà di essere quello che si vuole essere, di distinguerci dalla massa informe.

La bellezza di questi esseri solitari non si rivela nell’apparenza ma nella sostanza, matura dalla sofferenza e resta intatta, come congelata nel tempo.

Le storie burtoniane si intrecciano su un unico filo conduttore che è Tim stesso; l’immaginazione tesse la realtà, ci fa comprendere che la nostra esistenza è composta della «stessa materia di cui sono fatti i sogni», per usare un’espressione shakespeariana.

Realtà e fantasia sono espresse non come categorie ontologiche separate e distinte, ma come livelli sovrapponibili ed interscambiabili; il cinema è il mezzo attraverso il quale questa sovrapposizione è possibile. L'opera burtoniana non attinge al reale, ma ricerca l’universale e la fiaba diventa strumento di questa ricerca, essa si configura come un “altrove impalpabile” ma anche come mediazione, un processo di simbolizzazione nel quale l’individuo sperimenta che la realtà interna è trasformabile in senso.

Edward, Jack, Emily, Sally, solo per citare alcuni personaggi, sono espressione visiva, nel loro splendore e nella loro fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell’esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.
Il mondo eccentrico e vibrante di Tim gravita verso la passione e la forza della narrazione, del cinema, dell’immaginario, della rêverie, senza fare troppe distinzioni tra questi elementi. Ci offre dei frammenti di vite singolari, degli scenari quotidiani e surreali nel contempo, in cui è sempre possibile intravedere un eterno ragazzo, fragile ed introverso, dai capelli arruffati, che vive al confine tra la il possibile e l'immaginabile, tra il tempo nostalgico della memoria e quello circolare della fiaba.

venerdì 23 aprile 2010

Alice in Wonderland


Avevo poco più di cinque quando lessi il mio primo libro: Alice in Wonderland di Lewis Carroll, un'opera solo apparentemente indirizzata ai più piccoli, che continua ad affascinarmi allora come oggi. Una storia che letta da bambini ti segna indelebilmente perché apre la mente e il cuore ai molteplici mondi possibili creati dalla fantasia allo stato puro. Solo un regista come Burton che ha sempre filtrato la realtà con il sogno, poteva riappropriarsi di questa fiaba senza tempo e riproporla in chiave moderna grazie alle tecnologie 3D più avanzate. Il “folletto di Burbank” celebra l'immaginazione ovvero l'essenza stessa della sua arte visionaria e della sua poetica intimista, rileggendo e reinterpretando le avventure di Alice, raccontate da Carroll in due volumi, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Ne esce fuori un film che restituisce spessore psicologico e umanità a personaggi apparentemente privi di senso: dal vibrante Johnny Depp alias Cappellaio Matto, figura insieme folle e profondamente triste, che oscilla tra repentini sbalzi di umore a cui corrispondono altrettante variazioni cromatiche alla superba Regina Rossa, sovrana terribile col volto di un'impeccabile Helena Bonham Carter, talmente ossessionata dalla propria testa di proporzioni smisurate da voler decapitare chiunque gli capiti sotto tiro. Personaggi estremi con sentimenti reali, nel rispetto della tradizione del cineasta. Stavolta Wonderland, o meglio il Sottomondo come lo chiama Burton, rappresenta per Alice (la raffinata Mia Wasikowska) un viaggio iniziatico verso l'età adulta e non più solamente il rifugio infantile in cui preservare i sogni e l'innocenza. Alice è cresciuta, ha 19 anni, fugge ad un destino che non è il suo inseguendo il Bianconiglio col panciotto che la (e ci) conduce nel luogo della nostalgia, dell'infanzia dei sentimenti. La caduta verso il Paese delle Meraviglie è un caleidoscopio di oggetti del quotidiano che nello sguardo stupito si trasfigurano e assumono una valenza simbolica. Lo scenario toglie il fiato: tutto è curato nel minimo dettaglio dai paesaggi ai regni contrapposti delle due sovrane, la Regina Bianca (un'ottima Anne Hathaway) e la Regina Rossa. La prima vive in una sorta di Eden tutto bianco, marmoreo, a tratti spettrale con degli splendidi alberi in fiore e una scacchiera come esercito; la seconda abita in mezzo a un tripudio di cuori rossi, tra ranocchi servitori, scimmie soprammobili e fenicotteri da usare come mazze da golf, con un esercito di carte da gioco, rigorosamente rosse, che rappresenta da solo un buon motivo per vedere il film. In 3D gli altri personaggi dal Brucaliffo al fumo del suo narghilé, allo spettacolare Stregatto che appare e scompare. Chi ama Burton riconoscerà la sua inconfondibile impronta autoriale, le scelte stilistiche, l'umorismo sottile, e ritroverà frammenti, sguardi, paesaggi, suggestioni delle sue opere precedenti quali La Sposa Cadavere, Il mistero di Sleepy Hollow, Edward mani di forbice. Già l'incipit con un Big Ben in perfetto stile gotico appare come una firma, un logo che lo contraddistingue, richiamando alla memoria gli oscuri grattacieli di Gotham City e la Londra sanguinaria di Sweeney Todd. Ecco credo che memoria sia la parola giusta su cui ruota questo film: memoria di un capolavoro letterario entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo, memoria di un tempo segreto e inviolabile come l'infanzia, di Alice e di tutti noi, memoria come sogno in cui i sensi si alterano e la realtà si carica di senso, diviene sur-reale. Ma l'Alice burtoniana è anche una giovane donna che guarda al futuro, e che in qualche modo sa di doversi emancipare da quel mondo di bizzarrie dove tutto è il contrario di tutto, ma che non corrisponde alla falsità e al piattume della vita reale. Credo che se il film avesse avuto ancora più “anima burtoniana”, senza l'intervento tecnico-creativo e l'operazione di marketing spropositata di casa Disney, e sopratutto senza una sceneggiatura che rivela sin dall'inizio l'epilogo finale della storia, sarebbe stato un capolavoro al pari di Big Fish e Edward mani di forbice.Avrei voluto vedere una Alice leggiadra volteggiare tra i sentieri sconosciuti di un mondo dove tutto è ancora grazia e bellezza, caos ed ordine, dove il ticchettìo dell'orologio indica un tempo che si è fermato. E invece la protagonista è lì come un'onda fugace appena tracciata tra immagini incastonate, vive e accese, da cui sa tuttavia di doversi distaccare perché è giunta l'inesorabile ora di crescere. La sua incredibile avventura, sin dalle scene iniziali, appare come un'eco lontana che riecheggia nel vento dei ricordi, ricordi fatti di giochi da abbandonare e di sogni da cui non ci si vorrebbe (e dovrebbe) mai destare. Burton ci lascia nel cuore una malinconica nostalgia per un mondo che sapeva colmare di senso la nostra esistenza quando ancora non aleggiava su di noi (e su Alice) il pesante peso di essere qualcuno e di definire il nostro futuro.

La strategia degli affetti


Alla sua seconda prova registica Dodo Fiori, decide di esplorare il complesso universo delle relazioni umane. In primis, le dinamiche dei rapporti familiari: Paolo, un padre cinico e infedele ha difficoltà a comunicare col figlio adolescente Matteo, un ragazzo problematico reso insicuro dalle eccessive ansie materne. A rendere ancora più fragili gli equilibri della famiglia ci pensa Nina,una ragazza figlia di un vecchio amico con cui Paolo ha un conto in sospeso. L'idea di base è buona, ma Fiori la sfrutta male, tracciando in modo superficiale le complesse strategie degli affetti che intendeva rappresentare. La regia è piatta, i dialoghi non sempre sono pertinenti; il film prende ritmo pian piano, con un'apertura titubante in cui si fa fatica a capire il perno della narrazione. Gli attori cercano di dare pathos ai personaggi, a volte anche esagerando, ma la sceneggiatura non sempre riesce a tenere le fila del discorso, con relazioni che si intrecciano, ricatti emotivi, rabbie inespresse. Un film come La Strategia degli affetti che che verte attorno al rapporto umano e a tutte le sue possibili declinazioni, deve saper cogliere le sfumature dei personaggi e non solo tratteggiarne i contorni, assumersi il rischio di andare più a fondo, percepire i chiaroscuri, far parlare i silenzi. La coralità del film si perde così in una serie di storie che non riescono a convergere in un'unica direzione. Peccato per un cast che poteva essere meglio valorizzato. Ma del resto fare un film corale, in cui si percepiscano le singole voci, armonizzandole fra loro per creare una visione d'insieme non è impresa facile, tanto più quando ci sono di mezzo i rapporti filiali e le crisi d'identità adolescenziali.

Un’italiana a New York


L’attrice siciliana Nicole Grimaudo è attesa a Manhattan al Tribeca Film Festival dove potrebbe essere premiata per la sua coinvolgente interpretazione in Mine Vaganti di Ozpetek.
di Maria Cristina Locuratolo 11 aprile 2010 09:34

Ha un fascino intrigante alla Natalie Portman, ma gli occhi espressivi, penetranti e i colori mediterranei ne tradiscono le origini, trasmettendoci tutto il calore della sua terra. Classe 1980, catanese di Caltagirone, Nicole debutta quando la sua bellezza solare è ancora acerba nel primo talent show (only for girls) della tv italiana, Non è la Rai, accanto ad un’altrettanto giovane Ambra Angiolini. Dopo un’esperienza teatrale, la Grimaudo inizia con grinta la sua carriera da attrice, con la fiaba televisiva Sorellina e il principe del sogno di Lamberto Bava, alla quale segue la fiction Racket, al fianco di Michele Placido. A 18 anni Nicole fa il suo ingresso nel mondo del cinema, grazie ai fratelli Taviani che le affidano un ruolo in Tu Ridi. La carriera televisiva continua tra fiction e sit-com, mentre la “grande occasione” teatrale arriva con Amadeus nel 2003, dove l’attrice sarà diretta dal maestro Roman Polanski. Nel 2003, si innamora (per un periodo anche nella vita) di Elio Germano in Liberi di Gianluca Maria Tavarelli.

Instancabile, sul piccolo schermo, la Grimaudo veste i panni di una coraggiosa Tenente Giordano in R.I.S. - Delitti Imperfetti, della compagna di Gino Bartali - L’intramontabile, di una caposala in Medicina generale e di un giovane magistrato ne Il Mostro di Firenze. Il ritorno sul grande schermo è segnato dall’incontro con il regista italo-turco Ferzan Ozpetek ne Il giorno perfetto, film in cui affianca Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea, segue poi Baaria di Tornatore, in cui Nicole è una vedova sicula che si dedica con passione alla propria famiglia. Dopo Baaria è la volta di Mine Vaganti, di nuovo con Ozpetek, un ruolo intenso per Nicole che ne valorizza il talento e che è servito a rafforzare il suo legame artistico con il regista. Nella finzione Nicole è Alba, una ragazza con una vita difficile che si innamora di un ragazzo gay, con cui tuttavia instaura una profonda amicizia. Il film non solo vanta un cast nutrito di attori noti, da Riccardo Scamarcio ad Alessandro Preziosi, da Ennio Fantastichini a Elena Sofia Ricci, ma è stato venduto in ben 15 Paesi, ha ricevuto una buona accoglienza al Festival di Berlino e sarà l’unico film italiano ad arrivare a New York, dove sarà in lizza al Tribeca Film Festival, in programma nei prossimi giorni, per i premi al migliore film, al migliore attore e alla migliore attrice. Il festival newyorkese, in programma dal 21 Aprile al 2 maggio, è una vetrina internazionale di grande prestigio che vedrà protagonisti attori come James Franco ed Edward Norton. In un panorama cinematografico e televisivo che spesso, aihmé, premia la mediocrità, ben vengano stelle nascenti come la Grimaudo, che oltre ad essere bella, ha talento, classe e grinta da vendere.

Quando amore fa rima con cuore (e melassa)


Il regista di Pretty Woman gira un film zuccheroso sull’amore in tutte le sue possibili declinazioni. Un cast di stelle per una commedia di cui si poteva far benissimo a meno.

di Maria Cristina Locuratolo 31 marzo 2010 15:05

Anche i belli piangono. Per amore, s’intende. Su questo (falso?) presupposto Gary Marshall, il regista delle rom-com per eccellenza Pretty Woman, confeziona un film ad hoc per tutti gli innamorati (in)felici. Non a caso il titolo originale del film è Valentine’s Day,(in Italia è il poco fantasioso "Appuntamento con l'amore") giorno celebrativo dell’amore su cui vertono storie differenti, destinate ad incrociarsi in questa unità di tempo. Ci si aspetta un film delizioso come un cioccolatino, ma in realtà la commedia rosa si rivela più che altro una zuccherosa carrellata di “celebrities”, dal bel dottore di Grey’s Anatomy Patrick Dempsey alle “pretty girls” Jennifer Garner, Jessica Alba e Anne Hathaway, dal “babymarito” di Demi Moore Ashton Kutcher alla veterana Shirley MacLaine, senza dimenticare lei, la vera diva, Julia Roberts, ovviamente.

Marshall non si fa mancare neanche il "lupo buono" della saga di Twilight, il palestrato Taylor Lautner, per accaparrarsi una gran fetta di pubblico composto da teenagers adoranti del bel moretto. Fa da sfondo una Los Angeles da cartolina, tutta cuori e fiori per l’occasione. Un film corale in cui però le storie son tenute insieme flebilmente; siamo ben lontani dalla commedia d’amore a incroci Love Actually di Richard Curtis, sebbene si cerchi di imitarne la struttura. Marshall non si fa mancare proprio nulla: c’è il fioraio italoamericano che chiede in sposa la sua compagna, la dolce e ingenua donna innamorata di un uomo che non crede più sposato, l’uomo innamorato di una ragazza perbene che lavora su una linea erotica, una madre soldato in ritorno dall’Iraq, una press agent nevrotica e sola, una coppia di gay innamorati a distanza, amori adolescenziali e della terza età.

In questo pout pourri di sentimenti, nessuna storia o interpretazione emerge sulle altre, nessuna lacrima o risata viene strappata al pubblico. Appuntamento con l’amore si rivela l’ennesima operazione di marketing messa in atto da una major cinematografica, non a caso la Warner Bros ha distribuito il film negli States il giorno di San Valentino, mentre nelle nostre sale è arrivato solo un mese più tardi. Del romanticismo di Pretty Woman c’è ben poco, un film “telefonato” sin dai primi minuti, colmo di visi belli e noti. Sprecati, aggiungerei.

Tim Cavaliere di Francia


Burton e la Cotillard diventano Cavalieri delle Arti e delle Lettere a Parigi.
di Maria Cristina Locuratolo 18 marzo 2010 10:00

Anno fortunato per il cineasta più visionario dei nostri tempi. Successo grandioso al box office, nomina da presidente del prestigioso Festival di Cannes e un’onoreficenza di grande valore in terra francese. Tim Burton e l’attrice Premio Oscar Marion Cotillard sono stati insigniti del Premio del France’s Order of Arts and Letters a Parigi. Il Ministro francese della Cultura Frederic Mitterand ha nominato Burton e la Cotillard Cavalieri delle Arti e delle Lettere presso il Ministero della Cultura della Francia. Il cineasta, accompagnato alla cerimonia dalla moglie Helena Bonham Carter, ha definito il Premio “uno dei più grandi omaggi che abbia mai ricevuto”, e ha aggiunto “Dagli inizi della mia carriera, ho sempre avuto un posto nel mio cuore per la Francia, perché sia che i miei film siano piaciuti o meno, ho sempre pensato che la Francia fosse alla ricerca della poesia, del significato, delle cose che stavo cercando di fare. Infine ringrazia tutti dicendo: “La Francia ha un posto davvero speciale nel mio cuore e mi sento molto più a casa qui che nel mio Paese”. La Cotillard che ha vinto l’Oscar per l’interpretazione di Edith Piaf nel film La vie en rose e che ha recitato in Big Fish, capolavoro di Burton, ha dichiarato invece: “E’ un piacere ricevere questo onore insieme a Tim Burton, colui che mi ha aperto le porte del cinema americano e che è stato sempre un idolo per me”, inoltre ha anche sottolineato quanto si ritenga fortuna per tutto quello che le sta capitando. Burton tornerà in Francia a Maggio come Presidente della Giuria a Cannes, mentre il tornado Alice conquista le platee di tutto il mondo e si prepara a divenire un cult.