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venerdì 23 aprile 2010

Alice in Wonderland


Avevo poco più di cinque quando lessi il mio primo libro: Alice in Wonderland di Lewis Carroll, un'opera solo apparentemente indirizzata ai più piccoli, che continua ad affascinarmi allora come oggi. Una storia che letta da bambini ti segna indelebilmente perché apre la mente e il cuore ai molteplici mondi possibili creati dalla fantasia allo stato puro. Solo un regista come Burton che ha sempre filtrato la realtà con il sogno, poteva riappropriarsi di questa fiaba senza tempo e riproporla in chiave moderna grazie alle tecnologie 3D più avanzate. Il “folletto di Burbank” celebra l'immaginazione ovvero l'essenza stessa della sua arte visionaria e della sua poetica intimista, rileggendo e reinterpretando le avventure di Alice, raccontate da Carroll in due volumi, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Ne esce fuori un film che restituisce spessore psicologico e umanità a personaggi apparentemente privi di senso: dal vibrante Johnny Depp alias Cappellaio Matto, figura insieme folle e profondamente triste, che oscilla tra repentini sbalzi di umore a cui corrispondono altrettante variazioni cromatiche alla superba Regina Rossa, sovrana terribile col volto di un'impeccabile Helena Bonham Carter, talmente ossessionata dalla propria testa di proporzioni smisurate da voler decapitare chiunque gli capiti sotto tiro. Personaggi estremi con sentimenti reali, nel rispetto della tradizione del cineasta. Stavolta Wonderland, o meglio il Sottomondo come lo chiama Burton, rappresenta per Alice (la raffinata Mia Wasikowska) un viaggio iniziatico verso l'età adulta e non più solamente il rifugio infantile in cui preservare i sogni e l'innocenza. Alice è cresciuta, ha 19 anni, fugge ad un destino che non è il suo inseguendo il Bianconiglio col panciotto che la (e ci) conduce nel luogo della nostalgia, dell'infanzia dei sentimenti. La caduta verso il Paese delle Meraviglie è un caleidoscopio di oggetti del quotidiano che nello sguardo stupito si trasfigurano e assumono una valenza simbolica. Lo scenario toglie il fiato: tutto è curato nel minimo dettaglio dai paesaggi ai regni contrapposti delle due sovrane, la Regina Bianca (un'ottima Anne Hathaway) e la Regina Rossa. La prima vive in una sorta di Eden tutto bianco, marmoreo, a tratti spettrale con degli splendidi alberi in fiore e una scacchiera come esercito; la seconda abita in mezzo a un tripudio di cuori rossi, tra ranocchi servitori, scimmie soprammobili e fenicotteri da usare come mazze da golf, con un esercito di carte da gioco, rigorosamente rosse, che rappresenta da solo un buon motivo per vedere il film. In 3D gli altri personaggi dal Brucaliffo al fumo del suo narghilé, allo spettacolare Stregatto che appare e scompare. Chi ama Burton riconoscerà la sua inconfondibile impronta autoriale, le scelte stilistiche, l'umorismo sottile, e ritroverà frammenti, sguardi, paesaggi, suggestioni delle sue opere precedenti quali La Sposa Cadavere, Il mistero di Sleepy Hollow, Edward mani di forbice. Già l'incipit con un Big Ben in perfetto stile gotico appare come una firma, un logo che lo contraddistingue, richiamando alla memoria gli oscuri grattacieli di Gotham City e la Londra sanguinaria di Sweeney Todd. Ecco credo che memoria sia la parola giusta su cui ruota questo film: memoria di un capolavoro letterario entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo, memoria di un tempo segreto e inviolabile come l'infanzia, di Alice e di tutti noi, memoria come sogno in cui i sensi si alterano e la realtà si carica di senso, diviene sur-reale. Ma l'Alice burtoniana è anche una giovane donna che guarda al futuro, e che in qualche modo sa di doversi emancipare da quel mondo di bizzarrie dove tutto è il contrario di tutto, ma che non corrisponde alla falsità e al piattume della vita reale. Credo che se il film avesse avuto ancora più “anima burtoniana”, senza l'intervento tecnico-creativo e l'operazione di marketing spropositata di casa Disney, e sopratutto senza una sceneggiatura che rivela sin dall'inizio l'epilogo finale della storia, sarebbe stato un capolavoro al pari di Big Fish e Edward mani di forbice.Avrei voluto vedere una Alice leggiadra volteggiare tra i sentieri sconosciuti di un mondo dove tutto è ancora grazia e bellezza, caos ed ordine, dove il ticchettìo dell'orologio indica un tempo che si è fermato. E invece la protagonista è lì come un'onda fugace appena tracciata tra immagini incastonate, vive e accese, da cui sa tuttavia di doversi distaccare perché è giunta l'inesorabile ora di crescere. La sua incredibile avventura, sin dalle scene iniziali, appare come un'eco lontana che riecheggia nel vento dei ricordi, ricordi fatti di giochi da abbandonare e di sogni da cui non ci si vorrebbe (e dovrebbe) mai destare. Burton ci lascia nel cuore una malinconica nostalgia per un mondo che sapeva colmare di senso la nostra esistenza quando ancora non aleggiava su di noi (e su Alice) il pesante peso di essere qualcuno e di definire il nostro futuro.

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