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mercoledì 15 dicembre 2010

The Tourist


Johnny Depp e Angelina Jolie, amanti spericolati in un giallo veneziano leggero e ricco di glamour, diretto dal regista de Le vite degli altri

di Cristina Locuratolo
cristina.elle@hotmail.it

Florian Henckel von Donnersmarck confeziona una romantic action comedy dal gusto un po’ retrò come dono natalizio. La formula di The Tourist (distribuito in Italia da 01) è vincente: combina il miglior attore dei nostri tempi, Johnny Depp, alla sensuale e chiacchieratissima Angelina Jolie, una Venezia da cartolina a un giallo che pare d’annata. In effetti, il film è un remake della pellicola francese Anthony Zimmer, girato neanche troppo tempo fa, nel 2005, da Jérôme Salle e interpretato da Yvan Attal e Sophie Marceau. Caso curioso perché sia la Jolie che Depp sono legati alla Francia, la prima per origini, il secondo per amore e per scelta.

Elise (Angelina Jolie) è una sorta di Eva Kant inglese, bellissima e perdutamente innamorata di un misterioso uomo ricercato in diversi Stati per truffa ed evasione fiscale, disposta a mettere a repentaglio la sua vita pur di proteggerlo. Durante un viaggio in treno da Parigi verso Venezia, la donna incontra un turista americano, Frank (Johnny Depp) e tenta di sedurlo con l’intento di depistare i suoi inseguitori. Frank, un professore di matematica del Wisconsin, appassionato di gialli e sensibile al fascino di Elise, viene così scambiato per il malavitoso Alexander Pearce.

Al centro del film, più che la storia, a tratti poco credibile e debole, ci sono i due protagonisti: Angelina, abile nell’usare i movimenti del corpo e il proprio naturale fascino per costruire un personaggio elegante, sofisticato e iper-femminile, un’eroina romantica in abito da gran ballo, e Johnny che, svestiti i panni di personaggi stravaganti ed eccentrici, meravigliosa espressione delle molteplici rêverie burtoniane, incarna un uomo fin troppo normale, tanto da rendere paradossalmente straordinaria, come solo lui può fare, persino questo eccesso di ordinarietà.

Lo stesso Depp in conferenza stampa commenta così la scelta di interpretare il turista americano: «In tutti i personaggi che interpreto c’è sempre una parte di me. Frank, nello specifico, è invece un uomo molto diverso, perfetto e stirato. Ho voluto renderlo ipernormale. Mi ha fatto venire in mente un ragioniere che conoscevo e che girava il mondo con un solo hobby: quello delle foto. Fotografava tutto ciò che riproponeva il suo nome».

Ma c’è anche una terza protagonista ed è la location veneziana: riprese suggestive dall’alto, inseguimenti per le calli, per i tetti e fughe a go go in laguna. Il regista sfrutta ogni possibile risorsa di uno scenario senza dubbio unico al mondo e magico, ma che poco si presta a scene d’azione e ad alta tensione. Von Donnersmarck fa bene quando ne privilegia l’aspetto romantico: Venezia è una città perfetta per un incontro speciale e di certo veder coinvolti in una storia d’amore seppur contrastata (e intervallata da improbabili fughe) due interpreti talentuosi e bellissimi è uno spettacolo più che godibile.

Venezia è comunque rimasta nel cuore di Depp, del resto per un’anima da “pirata” come la sua il richiamo dell’acqua, sebbene quella lagunare, è forte: «Quella città è fantastica, magica, e io quasi ogni sera dalle 22 in poi andavo girando per la sue calli per godermi appieno la poesia di questa città. Una sola cosa – aggiunge – ha purtroppo turbato il nostro lavoro ed è stato il muro di paparazzi costantemente all’inseguimento di Angelina Jolie».

Il regista tedesco risponde alle critiche ricevute nel suo Paese, che si aspettava un film più cupo e impegnato dopo l’Oscar per Le vite degli altri: «Volevo fare un film che avrei potuto vedere a Natale insieme alla mia famiglia». Il cineasta, inoltre, non risparmia parole d’elogio per gli attori nostrani presenti nel film in cammei, da Alessio Boni a Christian De Sica, da Nino Frassica a Neri Marcoré. E a proposito della discussa scena bollente della doccia con Angelina e Johnny, il regista si rimangia le precedenti dichiarazioni secondo cui il momento hot era stato tagliato e dice: «Mi dispiace, ma questa scena non è stata mai girata», poi interpella Depp al suo fianco, il quale con ironia lo toglie dall’imbarazzo: «Alludi alla scena della doccia in cui ci siamo io e Christian De Sica, vero?». Successo al botteghino o meno si vedrà, intanto The Tourist ha già conquistato tre nominations ai Golden Globes per gli interpreti e nella categoria commedia/musical. Doppia e meritata candidatura per Depp, in lizza sia per l’interpretazione del Mad Hatter in Alice in Wonderland che per quella in The Tourist, l’attore commenta così la notizia: «Sono commosso e felice per le due cose, è strano essere in competizione con me stesso».

The Tourist non è una pellicola che lascia il segno, ma di sicuro sarà memorabile per aver formato sul grande schermo una coppia inedita, tutto sommato ben assortita e forse riproponibile. Certo, la storia si perde in più di un cliché, senza contare che sembra avulsa da qualsiasi dimensione temporale: la Jolie è vestita come una dama d’altri tempi, legge lettere segrete, e viene da pensare che se il treno su cui Elise incontra Frank fosse stato a vapore non ci saremmo stupiti. Del resto Depp la segue per dichiarargli il suo folle amore in un ballo tra conti e contesse in cui mancano solo i rondò e la mascherina. Ma forse il vero “cavaliere mascherato” è proprio Depp che, anche in questo film, si lascia avvolgere da un alone di mistero.

lunedì 6 dicembre 2010

I luoghi dell'attesa: Skogli nel film di Hamer


Tornando a casa per Natale del regista Bent Hamer è un film tratto da una selezione di racconti brevi del norvegese Levi Henriksen Only Soft Present Under the Tree. E proprio come suggerisce il titolo del libro, si tratta di un regalo delicato sotto l’albero. Un’unica opera che si articola in tante piccole storie che condividono lo scenario innevato di una cittadina immaginaria della Norvegia, Skogli, e la dimensione temporale, il Natale, appunto.

Pur essendo un film corale, Hamer mette in primo piano la solitudine dei suoi personaggi.

Skogli è il luogo dell’attesa e della speranza dove si intrecciano o si sfiorano, per il breve lasso di tempo della notte della Vigilia, esistenze differenti, ognuna con il proprio fardello: un uomo si traveste da Babbo Natale sostituendosi al nuovo compagno della ex moglie per rivedere i figli; un vecchio campione del calcio alcolizzato tenta di tornare a casa per le vacanze; una donna vive una relazione con un uomo sposato, un ragazzo trascorre la Vigilia con l’amica musulmana ignorando le tradizioni della sua famiglia; una coppia serbo-albanese dall’oscuro passato dà alla luce un figlio, grazie all’aiuto di un medico che ha messo a tacere l suo sogno di paternità.

Se la cittadina imbiancata diventa una geografia dell’attesa, la casa si erge a simbolo, recuperando il suo senso più profondo, quello di luogo d’origine, uno spazio fisico, ma soprattutto dell’anima a cui ognuno vuole fare ritorno in quella notte speciale.

Hamer confeziona una commedia carica di speranza e nostalgia, ricrea perfettamente l’atmosfera natalizia, complice lo scenario e la neve, e compie scelte stilistiche accurate, dall’uso dei colori prevalentemente natalizi come il rosso e il verde al realismo magico di alcune scene chiave, dalla dilatazione temporale all’amplificazione dei sentimenti. La cura per il dettaglio e la profondità del messaggio, che trova la sua massima espressione nell’esplosione dei colori dell’aurora boreale (realistica ma ricreata digitalmente), compensa la mancanza di una vero legame tra le singole storie.

Il Natale è un miracolo che si rinnova ogni anno, in cui il significato di nascita può coincidere con

quello di ri-nascita, di ritrovamento d un’identità smarrita, ma anche con la concessione di un perdono, la rivelazione di una verità da cui si rifugge, il disvelamento di un intimo desiderio.

C’è anche, però, chi non ritrova la via di casa e trova tutte le porte chiuse. L’uomo che ha perso la propria famiglia e deve ricorrere al camouflage, all’espediente per ricongiungersi anche se per poco con i propri cari, è a mio avviso la storia cinematograficamente più interessante. Resta tagliato fuori dalla sua vita e dunque anche dal Natale. Come dire, i miracoli avvengono per chi ci crede ancora e la magia del Natale si rivela solo se si hanno occhi e cuore nuovi, e non ad uno sguardo disincantato.

venerdì 29 ottobre 2010

Precious


Arrivato in Italia come ultima tappa di un viaggio lungo un anno tra premi, riconoscimenti e due statuette dell’Academy Awards (migliore attrice non protagonista e migliore sceneggiatura non originale).

Precious, nato dalla penna della scrittrice americana Sapphire col titolo di Push e tradotto per il grande schermo dal regista Lee Daniels è la storia agghiacciante di una ragazza di Harlem, che vive in condizioni disagiate, vittima di abusi e violenze familiari, priva dell’educazione scolastica e con gravi disordini alimentari. Violentata dal padre, rimane incinta due volte. Partorisce un figlio down e ne attende un altro. Subisce continue aggressioni dalla madre che la mortifica, l’accusa di averle sottratto le attenzioni del marito, la picchia brutalmente e abusa di lei.

Lo sguardo impietoso di Daniels ci mostra un mondo, il ghetto, dominato dall’ignoranza e dalla povertà, in cui la violenza, sia fisica che verbale, rappresenta l’unico modo per relazionarsi con l’altro. Un mondo privo di qualsiasi prospettiva o orizzonte culturale, il cui unico contatto con l’esterno, l’unica finestra è uno schermo televisivo. Ed è su questa finestra che si affacciano i sogni di Precious, momenti di evasione onirica che il regista sceglie di mostrarci, oscurando con essi le scene di violenza sessuale. Una scelta che, a detta del regista stesso, serve ad alleggerire il racconto, ma non lo rende meno indigesto, perché presentandosi come un rituale, con la reiterazione scombinata di immagini fortemente rappresentative della quotidianità di Precious, sembra quasi sapientemente studiata per lasciare spazio all’immaginazione dello spettatore.

La forza del film non è nell’orrore che racconta, che lascia senza fiato e blocca qualsiasi reazione emotiva dello spettatore che non sia incredulità, disgusto e indignazione, ma nella protagonista, nel suo coraggio, nella sua determinazione ad uscire dal suo inferno personale, pur non avendo gli strumenti e la chiara percezione di quello che le è successo e che le sta succedendo.

Il riscatto è nell’istruzione, l’unica arma in grado di sconfiggere l’ignoranza bieca che sfocia nella violenza più truce, quella che riduce l’uomo a bestia malevola, quella per cui non esiste compassione, ma solo condanna. Precious, nonostante tutto comprende che c’è davvero qualcosa di “prezioso” in lei e che va salvaguardato. Comprende che la risposta alla violenza non deve essere necessariamente la violenza stessa e che si puo’ uscire dal tunnel se si cerca la luce.

La storia di Precious potrebbe apparirci lontana, temporalmente per la sua atmosfera vintage, dato che è ambientata negli anni Ottanta e spazialmente perché ha luogo in una realtà marginale, tuttavia la potenza visiva delle immagini, l’imponenza fisica e scenica della debuttante Gabourey Sidibe, maschera tragica in cui si riflettono migliaia di Precious, e l’invisibile violenza che striscia come la più alta forma del male, lascia in tutti noi, anche se geograficamente e culturalmente distanti dal ghetto, un segno che è una cicatrice e il peso di una verità insostenibile.

venerdì 22 ottobre 2010

Figli delle stelle


Il film di Lucio Pellegrini mette in scena le umane vicende di un variegato gruppo di anti-eroi nostalgici e sognatori, ai tempi dell’anti-politica e della disillusione esistenziale

«Ho provato a cogliere lo spaesamento, l’amarezza e la frustrazione dei nostri tempi bui, e a trasformarli in una commedia dinamica, eccentrica e un po’ folle. Ho pensato che tutto sommato viviamo in un paese in cui, storicamente, nel tempo, le tragedie si sono trasformate in farse».

Così il regista Lucio Pellegrini esordisce alla conferenza stampa del suo Figli delle stelle. Una commedia agrodolce e surreale che mette insieme un gruppo variegato di antieroi nostalgici e sognatori. In seguito alla tragica morte sul lavoro di un amico, un giovane portuale di Marghera (Fabio Volo) parte per Roma a chiedere giustizia in un talk show televisivo condotto da una giornalista con l’istinto da crocerossina (Claudia Pandolfi). Da quel momento in poi la sua vita si intreccerà con quella di un professore trentenne che lavora in autogrill (Pierfrancesco Favino), un rivoluzionario con una naturale predisposizione all’arte culinaria (Giuseppe Battiston), un uomo uscito di galera che non ha mai conosciuto il figlio (Paolo Sassanelli). Uniti dalla passione antipolitica e dalle illusioni perdute compiono il gesto estremo di protesta: rapire il Ministro del Lavoro per ripagare col riscatto la vedova del portuale. Perché se è vero che loro sono anni luce lontani dal mondo in cui vivono, la politica è altrettanto lontana dai bisogni e le necessità della gente comune che lotta quotidianamente per sbarcare il lunario e immaginarsi un futuro.

Il “colpo” però non va a buon fine perché la strampalata banda rapisce il sottosegretario Stella (Giorgio Tirabassi): un uomo perbene che cerca di far approvare una legge a favore di un’innovativa cura contro il cancro. I personaggi sono il cuore del film, veri e imperfetti, teneri e grotteschi, surreali ma umani. Diversi per provenienza ed estrazione sociale, vivono una condizione di precariato più che sociale, esistenziale, quell’impossibilità all’azione, quella sospensione e quel senso di smarrimento che caratterizza la nostra età.

Il film di Pellegrini si ispira alla grande lezione della commedia umana, da I soliti ignoti di Monicelli all’humour paradossale dei fratelli Coen. I Figli delle stelle sono «senza storia senza età eroi di un sogno», proprio come cantava Alan Sorrenti nel 1977 nella canzone omonima; per portare a termine la propria missione, fallimentare già dall’inizio, partono dalla capitale per rifugiarsi tra i monti innevati della Valle d’Aosta, nel bel mezzo del nulla. Indossano giacche con pelliccia in pieno stile “eighties”, ascoltano dischi in vinile e si improvvisano criminali col passamontagna. Restano ancorati a un mondo vintage perché non si sentono rappresentati dalla realtà che li circonda, ma nonostante questo lottano per il bene comune. Forse per vivere meglio il presente, bisogna intercettare una dimensione altra: in fondo i buchi neri non sono che stelle morenti.

venerdì 8 ottobre 2010

Una sconfinata giovinezza


Avati racconta una storia di amore e malattia in un film dall’intensa carica emotiva che ha in sé la leggerezza della fanciullezza e la poesia dei paesaggi della memoria

Lino e Chicca, una coppia come altre unita da un amore lungo ed intenso, che tuttavia nella sua pienezza porta il peso di un’incompletezza, di una mancanza, di un desiderio e una necessità mai esauditi: un figlio. Questa urgenza di amore anziché infrangere, cementa una relazione che assume nel tempo declinazioni sempre più profonde e comprensibili solo all’interno della coppia stessa.
Quando il dolore fa irruzione sotto forma di una malattia, il morbo di Alzheimer, nella vita di Lino e quindi della sua compagna Chicca, il presente diventa un ricordo sbiadito eppure reale. Lino invecchia col corpo, ma la sua mente ritorna all’infanzia, in un luogo invisibile in cui Chicca ancora non c’era, eppure l’amore per lei resta e si trasforma. Pupi Avati, che per la prima volta racconta una storia d’amore, trasfigura i ricordi infantili di Lino in chiave magica, quasi fiabesca.

Una giovinezza, segnata dalla perdita dei genitori, da un incidente, dal casale degli zii in campagna, dalle scorribande per i colli bolognesi con un cane al seguito. Chicca segue il compagno in questo viaggio a ritroso, diventa per lui, ormai tornato bambino, la madre che non ha mai potuto essere, riversa il suo amore sempre uguale eppure diverso cercando di non perdere il filo tra la sua mente e quella di Lino, attraverso un linguaggio noto solo a chi si ama.

Avati trova la giusta misura e la delicatezza per raccontare una storia straziante, che altrimenti rischiava di cadere nel melodrammatico e nel patetico, mostrando un grande rispetto per chi la malattia la vive in prima persona o di riflesso. Bravi gli interpreti, la Neri invecchiata per esigenze di copione e sempre bellissima ci regala un’interpretazione intensa e misurata, ottima l’intesa con Bentivoglio, struggente e tenero. In entrambi, anche quando il loro rapporto moglie/marito si tramuta in una relazione madre/figlio,si percepisce l’intensità di persone adulte con il loro bagaglio di rimpianti e dolore e la complicità tra due amanti che pur di non perdersi, decidono di traslare il loro sentimento, trasferendolo in altro tempo, caricandolo di nuovo senso. La zia Amabile, interpretata da Serena Grandi rappresenta il ricordo più dolce per Lino, una sorta di fatina buona che cerca di ricomporre i cocci di un bimbo rimasto orfano. L’amarcord avatiano sembra percorrere tutto il film, anche nelle scene in cui non vi è rievocazione; questo forse perché l’amore e la sofferenza non hanno una dimensione spazio-temporale, come il sogno e il ricordo. Una Sconfinata giovinezza risente della forte impronta autobiografica del regista, qui anche sceneggiatore, che esprime il bisogno di guardare indietro per guardare oltre, di recuperare quell’ingenuità e quello stupore tipico della fanciullezza, e perdersi in quel territorio segreto che nessuno conosce perché è solo tuo. Quando Lino non riuscirà più a distinguere il presente dal passato, Chicca andrà a cercarlo tra gli amati colli, dove risuona ancora l’eco delle risate infantili, l’armonica del vecchio zio, l’abbaiare del cane. Ma se un fanciullo non vuole più tornare a casa sa dove nascondersi, perché ogni bambino ha un altrove impalpabile e inviolabile che nessuno conosce e che può sempre ritrovare.

mercoledì 22 settembre 2010

Quel “mostro” di casa


OSCURE PRESENZE E DRAMMI FAMILIARI: VIAGGI SENZA RITORNO TRA LE QUATTRO PARETI DOMESTICHE



LO “SPAZIO MORTALE”

I “Brutti Posti”si configurano come l'habitat naturale di fantasmi e “presenze” di ogni sorta, ma a ben vedere, essi possono essere delle “batterie psichiche”, capaci di assorbire e contenere al loro interno tutta quella carica di “energia” scaturita da emozioni intense e primordiali. Oppure possono rivelarsi come un'emanazione della psiche tormentata di chi la abita o di chi l'ha abitata, una sorta di prolungamento dell'io narcisistico di qualche proprietario che faceva della casa il proprio specchio. Uno degli esempi migliori di “brutto posto” nel cinema contemporaneo è senza dubbio The Others (2001) di Alejandro Amenábar; la casa stregata in questione è un'isola innevata di ombre e nebbie abitata da una donna, Grace, e i suoi due figli. L'abitazione è sempre al buio, le finestre devono restare chiuse perché i bambini sono fotosensibili e uno spiraglio di luce potrebbe ucciderli. Nella dimora vittoriana vigono regole rigidissime imposte dal profondo senso di religiosità di Grace, regole che servono a scongiurare quella sensazione di minaccia, di pericolo incombente che pervade la casa, in cui si mescolano presenze e assenze.
Amenábar gioca sulla doppia valenza del “brutto posto”: esso è specchio della mente disturbata di una madre costretta a far vivere i propri figli come vampiri, o è davvero una casa stregata?
Nella villa priva di ogni mezzo di comunicazione, con lunghi corridoi, c'è un pianoforte che suona senza che nessuno sfiori i tasti, ci sono tende che si aprono da sole. Chi sono gli “altri”, gli “intrusi”? Grace con i suoi bimbi malati, che attende il ritorno del marito, morto nella guerra del '45, o due domestici misteriosi con una ragazzina muta che giungono misteriosamente nella casa? Chi è veramente morto e chi è vivo nel chiaroscuro dei corridoi? Quale terribile segreto deve restare nascosto, dietro ogni porta obbligatoriamente chiusa, perché non ci spaventi?
Stesso “brutto posto”, quello di Juan Antonio Bayona nel suo The Orphanage (2008), chiaramente ispirato al capolavoro di Amenábar, in cui la casa è un vero e proprio personaggio, rappresenta uno stato mentale dal quale la protagonista, Laura, non vuole distaccarsi perché è il luogo di un'infanzia idealizzata, un rifugio dal mondo degli adulti e delle responsabilità. Laura, è un personaggio infantile che non sa rapportarsi con l'età adulta, ma è anche una donna coraggiosa perché decide di affrontare i propri incubi personali da sola nella casa. Il “brutto posto” qui rappresenta tutte quelle “zone oscure” della vita che minacciano la nostra stabilità, quali la morte, la malattia, l'abbandono, il trauma della separazione da un passato che si credeva idilliaco o da una presenza a noi cara che potrebbe venire a mancare in futuro e, nel contempo, costituisce un rifugio sicuro, quell'isola che non c'è in cui i nostri ricordi vengono preservati e gli “strappi” emotivi ed affettivi ricuciti.
Il “fantasma” qui può essere letto sia come elemento soprannaturale, che come qualcosa che ci “abita” dentro, uno spettro che si agita dentro di noi.

L’HOTEL ASSASSINO E LA CASA FAMELICA
Stanley Kubrik in Shining (1980), tratto dal libro omonimo di Stephen King, rielabora in chiave horror il topos letterario della “casa infestata” trasformandola in un hotel, relazionandolo con una famiglia, composta da una coppia e dal loro figlio, dotato di facoltà telepatiche. L'Overlook Hotel, in realtà, è un luogo pieno di influenze tragiche; sorto sopra un vecchio cimitero indiano, in esso “alberga” il segreto e la colpa di una storia di follia omicida, avvenuta anni prima. Grazie alle doti “magiche” del nuovo residente, l'hotel diviene un luogo che mette in comunicazione passato, presente e futuro, aprendo una dimensione “altra”, emozionale in cui i tre tempi convergono.
La struttura labirintica dell'albergo invece, non solo è una chiara proiezione dello squilibrio mentale del guardiano, ma associa il “brutto posto” ad uno status onirico, ad una rappresentazione simbolica del subconscio degli abitanti della casa.
Il fatiscente edificio di Monster House (2005) potrebbe nascondere mostri terrificanti o spettri che trascinano catene, ma in realtà è la casa stessa a costituire un pericolo per i tre ragazzini incuriositi che vogliono scoprire il suo segreto. La sinistra dimora è una casa “affamata”, che mangia tutto ciò che gli capita a tiro, bambini compresi. Il film di Gil Kenan, prodotto da Spielberg e Zemeckis, oltre ad essere un'eccellente prova di motion capture, è un'ironica rivisitazione dello stereotipo della classica haunted house, ovvero della casa occupata da “presenze” indesiderate. I temerari ragazzi compiranno un viaggio surreale, la notte di Halloween, fin nelle viscere della casa, e sì perché l'abitazione ha un cuore, e ogni organo vitale posseduto da un essere umano. L'antropomorfizzazione della casa è dovuta all'identificazione di quest'ultima con la proprietaria defunta, la cui anima ingorda è imprigionata nella dimora. Il maleficio che incombe sulla casa verrà annullato dai tre teenagers che libereranno la casa dallo spirito ingombrante, anche nelle dimensioni, della signora onnivora.
Come direbbe Dante "Lasciate ogni speranza voi ch'entrate" perchè dietro ogni porta di qualsivoglia rispettabile casa può nascondersi l'inferno.

Le figure del crepuscolo di Tim Burton



L'altra umanità: creature destinate alla solitudine, uomini sotto la pelle d'animale (o viceversa), spettri in abito nuziale: benvenuti nell'universo burtoniano


I film di Tim Burton sembrano muoversi in un “altrove impalpabile” dominato dalla sola immaginazione, punto di incontro tra contingenza e straordinario.
Il mito di Frankenstein è un vero e proprio leit-motiv nel cinema di Burton. Il problema della creazione, solleva questioni esistenziali; Burton concepisce qualsiasi essere, umano o non, come una sorta di collage, di pezzi cuciti insieme, sia in senso emotivo che in senso fisico.
Forse il film più personale della carriera del regista, interamente ideato, scritto, e realizzato da lui è Edward mani di forbici (1990).
L’idea di “un ragazzo con forbici per mani” viene concepita prima graficamente e poi come soggetto cinematografico; un’immagine forte, audace ed irreale, che delinea un personaggio in conflitto con se stesso, la sua incapacità di comunicare, di “toccare” le cose.
Il mostro non ci viene mai presentato come una figura negativa ma come una creatura triste, dal corpo deforme o menomato, che non riesce a trovare il suo posto nel mondo. I veri cattivi sono i villains, è la folla rabbiosa che rincorre Edward alla fine del film.
La genesi dei due personaggi Edward/ Frankenstein presenta molti punti di contatto. Entrambi vengono creati artificialmente in un laboratorio da un anziano inventore, ma la “mostruosità” di Edward deriva da una mancanza. L'opera del mad doctor-padre è rimasta incompiuta perché questi è morto prima di donare alla sua creatura le mani.
Questa “duplice assenza” genera paura e solitudine e non consente ad Edward di integrarsi nella società; egli non viene riconosciuto come umano tra gli umani, non gli viene attribuito un valore come persona anziché come oggetto di curiosità.
L’epilogo si chiude con il ritorno di Edward al suo mondo, al maniero gotico dove è stato creato, seguito da una folla irata di frankensteiniana memoria.

ISTINTI ANIMALI

In Batman (1989), Burton riprende due archetipi delineati da King: il Licantropo e il Vampiro. Batman, infatti, si fonde col suo animale totemico, il Pipistrello, che a sua volta ricalca il mito del vampiro. Egli agisce solo di notte, vive in una caverna, quasi una cripta, abitata solo da pipistrelli, situata sotto un maniero che domina Gotham City. Ma è la relazione Batman/Joker a dominare la struttura drammatica del film. È Batman stesso a creare il Joker facendolo precipitare in una vasca piena d’acido. L’uomo sopravvive, ma il suo viso resta orrendamente sfigurato e diventa una maschera grottesca dal ghigno spaventoso e dai colori acidi e accesi. I due personaggi sono legati a filo doppio, sono l’uno lo specchio dell’altro. La “metamorfosi” del Licantropo avviene nei due personaggi in modi diametralmente opposti: mentre nel Joker non c’è scarto tra essere e apparire, il suo volto è già una maschera permanente, Wayne ha invece bisogno di farsi “altro da sé”, di indossare una maschera per divenire Batman. L’uno è folle, l’altro lotta con i propri conflitti interiori e cerca una valvola di sfogo a questi, assumendo altre sembianze.
Il Joker pone al centro della sua esistenza una ricerca estetica, ergendo se stesso a oggetto della sua arte. Un’arte provocatoria, dissacrante, che irrompe nella vita con la propria carica distruttiva, oltrepassa il confine tra bene e male rendendo un atto criminale, l’omicidio, atto di sovversione artistica.
In Batman Returns (1992), Catwoman e il Pinguino sono prolungamenti dell’io schizofrenico di Batman, la loro maschera non è un segno di occultamento, ma mezzo di liberazione attraverso cui esprimere pulsioni primitive. Mentre il Pinguino è un mostro, un uomo-anfibio non riconosciuto come persona, Catwoman è un Licantropo, che fonde la sua natura con quella del suo animale totemico, il gatto.
Entrambi, però, rimangono nella loro pelle d’animale e sotto di essa soffocano la sofferenza, senza mai giungere a una piena consapevolezza di loro stessi, a una maturità che li porti a “uscire dalla morte” fisica o simbolica, ossia elaborare i conflitti consci e inconsci, verso il riconoscimento di un’identità, un’interiorità.

SPETTRI E FIORI D’ARANCIO

L'archetipo del Fantasma è invece pienamente rappresentato da La Sposa Cadavere (2005): il film trae spunto da una leggenda ebraico-russa, secondo cui gli antisemiti si recavano ai matrimoni israeliti per uccidere le spose, per evitare il perpetuarsi della stirpe, seppellendo i cadaveri con ancora indosso l'abito nuziale. Dalla terra coperta di ghiaccio vediamo sbucare una figura inquietante, sembra uno zombie che risorge dagli inferi, si aggrappa al terreno con forza per risalire dal sottosuolo. Lo spettro, Emily, alza il velo da sposa stracciato, mostrandoci il volto. Ci rendiamo conto di quanto sia bella, anche se è morta e in decomposizione e con le palpebre violacee.
L'anima della sposa, imprigionata in un corpo decomposto si trasforma, quando i suoi conflitti interiori trovano una risoluzione, in una miriade di farfalle (psiche in greco significa sia anima che farfalla); Emily è espressione visiva, nel suo splendore e nella sua fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell'esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.

La povera piccola ragazza ricca di Andy Wahrol: Edie Sedgwick


Una “povera piccola ragazza ricca” che diviene una celebrità per poco più dei quindici minuti di fama di cui parlava Andy Wahrol. Una principessa della controcultura americana dai capelli biondo platino e gli occhi marcatamente truccati, incantevole nella sua fragilità, bella e dal fascino glamour, ma destinata ad un declino rapido quanto la sua ascesa. Questo il ritratto, dai contorni un po’ sfumati, di Edie Sedgwick, icona della cultura pop, meteora dello star system: intelligente, carismatica, fuori dagli schemi, nervosa nei movimenti, profonda nello sguardo, dalla bellezza anticonvenzionale e trendy. New York è lo scenario, in cui negli anni '60, Edie, la ragazza con gli occhi dal colore di “due barrette di cioccolato Hershey”, incontra il genio pop Andy Wahrol, che affascinato dallo stile e dalla personalità della ragazza, la erige a “rango” di musa, trascinandola al centro dell'eccentrico e vibrante mondo della “factory”, la sua fabbrica creativa, il luogo dove l’artista dipingeva, girava film, intratteneva i suoi amici.
Edie diventa con estrema facilità uno di quei falsi miti creati da una cultura “usa e getta”, una dea pop idolatrata e poi presto caduta nel dimenticatoio. Warhol è l’artefice di questo nuovo modo di vedere il mondo, la sua arte non inventa ma re-inventa le cose, trasforma una faccia seria in una serie di facce, una scatola di fagioli o un fustino in un oggetto di culto, sbatte l’America in faccia all’America riproponendo all’infinito i simboli effimeri che la rappresentano, probabilmente per sopperire a quel vuoto di valori e di tradizioni culturali che la distingue dalla vecchia Europa. Ma dietro questi simboli, siano essi lattine di Coca cola o volti umani, c’è un uomo, un artista e le sue idee, idee che rivoluzionano, “eccedono”, veicolano la realtà di un’epoca o di una vicenda umana.
Edie offre tutta se stessa alla “factory” con estrema fiducia ed ingenuità; il suo corpo, il suo volto espressivo e la sua stessa vita diventano un oggetto ad uso e consumo di tutti, proprio come una scatola di Campbell Soup. Il rischio è che la sua anima diventi vuota proprio come quella scatola di latta. Neanche l’amore per la rockstar Bob Dylan, che scrive per lei la canzone Just like a woman, riuscirà a salvarla e ad allontanarla dal mondo di Andy, da cui è totalmente sopraffatta. La droga, l’alcool, il lusso, la fama accecano la piccola star proprio come i milioni di flash che la immortalano continuamente, trasportandola in un baratro senza fine.
Il merito e la colpa di Warhol è stato quello di “spezzare il dolore”, trasformandolo in arte, attraverso un'alchimia segreta che combina una storia di violenza, morte e pazzia; i suoi film sulla “povera ragazza milionaria” si possono concepire come antenati dei nostri moderni “reality show”, capovolgendone però la finalità, non esistenze comuni rese eccezionali dai riflettori ma esistenze eccezionali esaltate dall’occhio impietoso della cinepresa.
Così Edie che si sveglia, ordina caffè e succo d’arancia, si trucca, si veste, parla al telefono e racconta alla macchina da presa il suo dolore, la sua rabbia e infine la sua miseria, diviene poi un corpo inerme, abusato, deturpato da lividi, su un letto sfatto, una Venere scesa dal suo Olimpo glorioso a cui nessuno restituirà quel sorriso, ossessivamente ritratto, fotografato, filmato, che lei non è nemmeno più in grado di riconoscere. La stella del firmamento di Warhol diventa uno scarto del sistema produttivo sul quale la filosofia pop costruisce le sue basi, Edie Sedgwick “la prima It girl”, è solo una merce di scambio, e come tale si sottopone alle dure leggi del mercato, riciclabile, vendibile e come tale va rimpiazzata con un nuovo prodotto (le nuova muse di Warhol: la drag queen Candy Darling, l'attrice portoricana Holly Woodlawn )
Nonostante questo, Edie resta la prediletta del “genio”, come l’artista pop amava farsi chiamare dalla ragazza; la relazione tra i due tradisce un legame che va oltre il rapporto artistico, carico di emotività e affinità intellettive, per certi versi morboso. La Sedgwick muore a soli ventotto anni a causa di una overdose, dopo una lunga permanenza nella clinica psichiatrica dove ha trascorso l’infanzia, e il suo breve matrimonio con un paziente. Andy ed Edie condividevano oltre al gusto artistico un folle desiderio di fama, probabilmente li accomunava un altrettanto folle paura della morte, a cui solo il ricordo, tanto più se immortalato e ripetuto all’inverosimile, può sopravvivere. I quindici minuti di fama di Edie hanno influenzato un'intera generazione, e sebbene le siano costati la vita, le hanno garantito l'immortalità.

L'arte di Warhol ci restituisce un'icona di dolcezza e dolore, dai capelli spettinati e il trucco sfatto, ma dietro l'immagine forte di donna indipendente si cela una fragilità struggente e il panico nei confronti del mondo.
Chi conosceva Edie la descrive come una ragazzina intimorita in cui convivevano una carica vitale eccezionale e un passato doloroso, un ottimismo nei confronti della vita e un senso imminente di tragedia. La prima superstar della storia ha l'anima punk e un cuore che si sgretola facilmente, è un angelo nero con lo sguardo sempre perso nel nulla, con le frasi lasciate a metà, i pensieri fumosi, e un urlo di rabbia rotto da un sorriso.

Les Femmes Fatales



Potremmo racchiudere l'immagine della femme fatale in un corpo, o mille corpi; in sguardi che seducono e ammaliano per poi condurre alla rovina chiunque ne fosse pericolosamente attratto. Ma sbaglieremmo clamorosamente.
In realtà, la femme fatale è pura energia femminea che si rinnova nel tempo, e al di sopra del tempo, facendo convergere in un unico sguardo, tutti gli sguardi, e in un unico corpo, tutti i corpi.
Dall'imperatrice Theodora nel regno di Giustiniano, alla Salome di Strauss e di Oscar Wilde, intrisa di spirito decadente, la femme fatale è la regina bellissima e terribile, l'incantatrice, la strega, la vedova nera, la vampira, l'incubo e il sogno di ogni uomo. Una donna che rappresenta la dicotomia tra Bellezza e Morale, Passione e Sentimento, risolta a netto vantaggio dei primi.
Donna Fatale, Eros e Thanatos; una figura leggiadra e conturbante che aleggia nell'aria come una mantide religiosa, si muove sinuosa come una pantera, conducendo le proprie prede in un valzer mortale. Un mito, un'icona che afferma con forza la natura diabolica, e insieme, divina della donna.
Spesso associata alla “vamp”, ovvero una donna che vampirizza gli uomini, castrandoli del loro potere, e alla “dark lady”, un'oscura signora che oltre alla brama di sedurre cela un profondo desiderio di annientamento del maschio-oggetto. La femme fatale contemporanea interpreta un nuovo concetto di femminilità, una donna nuova che domina la società in cui vive ed è padrona del proprio destino, e non solo del proprio rapporto amoroso.
Le Maghe Circe della modernità sono le dee dell'Olimpo Hollywoodiano; dai film muti di Theda Bara, la prima vamp della storia, all'algida Marlene Dietricht fino alla bambola sexy dagli abiti svolazzanti, determinata a sposare l'uomo che ha sedotto, l'ineguagliabile Marylin Monroe.
Un'aura di mistero circonda le donne dei film noir, le cosidette dark lady, perverse quanto basta per trascinare in un baratro oscuro di perversione e morte i propri partners. In Femmina Folle di John. M Stahl è rappresentato l'incubo reale dei soldati americani, che di ritorno dalla guerra si vedono spodestati dal proprio ruolo a casa e nel lavoro, dalle proprie donne.
La “femmina folle” si evolve da oggetto di sguardo a soggetto; vuole liberarsi dalla prigionia rappresentata dalla vita di coppia, ma anche dal proprio corpo che la “condanna” ad essere prima amante e poi madre. La protagonista del film, Gina Tierney, si ribella alla propria sessualità e alla maternità; rifiuta la sua stessa natura di donna, cercando di annullare ciò che sta nascendo in lei, anche a costo della sua stessa vita.
La donna vuole scoprirsi diversa, dominare se stessa e il mondo; non cerca più di assomigliare all'uomo, ma sente il bisogno di distinguersi e affermare la propria identità. E' questa la “femme hitchcockiana”, una donna alla ricerca di un equilibrio, più matura ed arguta: la Grace Kelly in La finestra sul cortile e Gli uccelli, il “ghiaccio bollente” del maestro del brivido, ossimoro vivente che coniugava freddezza e sensualità, logica e sentimento.
Norma Jeane Baker in arte Marilyn Monroe rappresenta il sogno proibito degli americani (e non solo); sex symbol e icona pop sulla cui morte prematura aleggia ancora un'aura di mistero. Di lei disse Arthur Miller, celebre commediografo « Si materializzò sulla porta come l'ultimo dei pensieri, quello che non ti capita mai in testa, quello che quando arriva fa "bang", e per qualche minuto hai la mente vuota e non sai pensare ad altro ».
Marilyn, una miscela esplosiva di erotismo ed innocenza, un'artista che si definì "un prodotto artificiale", una diva dalla vita tumultuosa che mirava, come lei stessa dichiarò, non alla fama e ai soldi, ma ad "essere magnifica", riuscendoci perfettamente. Un modello femminile talmente perfetto e desiderabile da sembrare un'emanazione divina persa nel tempo della proiezione cinematografica, immortalata in migliaia di foto su riviste patinate e calendari sexy, riprodotta all'infinito nelle opere pop di Andy Warhol, emulata da decine di star, ma mai eguagliata. Tragicità e bellezza, un fascino etereo e malizioso nel contempo; la Monroe, un angelo biondo dalle diaboliche anomalie, appare ora quasi un personaggio di fantasia, una Jessica Rabbit ante litteram che danza sinuosa nei sogni dei maschi di tutto il pianeta, dispensando baci leggeri come un soffio e catturando sguardi con i suoi occhi splendenti come diamanti.

Proviene invece dall'Europa, un'altra "biondona" dalle curve morbide come lasigla che la rappresenta: B.B Brigitte Bardot è una donna sempre più sicura del proprio fascino, vera icona di una nuova femminilità anni '60-70. Stupenda anche acqua e sapone, semplice ed intelligente, un'incantatrice moderna indipendente e forte, una sirena dal delizioso accento francese che affascinò l'America, diventando secondo il critico cinematografico Ivon Addams “l'idea che ogni uomo ha della ragazza che vorrebbe incontrare a Parigi".
Catherine Trammell alias Sharon Stone è entrata prepotentemente nell'immaginario erotico contemporaneo, semplicemente accavallando le gambe; una vedova nera in carne ed ossa che dopo aver consumato l'amplesso con il proprio partner, voracemente come un pasto, se ne libera uccidendolo. E senza inutili sensi di colpa. La Trammell di Basic Istint è una delle rappresentazioni più estreme e crudeli di femmes fatales; eppure non smette mai di piacere. E questo non solo perché emana sensualità da tutti i pori, o perché la sua “dipendenza da rischio” in qualche modo giustifica le sue carneficine, ma perché incarna il segreto, oscuro desiderio di rivalsa, nei confronti dell'uomo, che ogni donna, almeno una volta nella vita, ha provato.
La “Femme Fatale”di Brian De Palma ha il volto di Rebecca Romijn: un omaggio ai film noir francesi anni'40 in cui una biondona mozzafiato, sulla scia di Eva Kant si improvvisa ladra, manipolando col suo fascino un'altra donna, a cui sottrarrà un gioiello prezioso a forma di serpente, simbolo biblico del Male, e cosa ben più preziosa, l'identità. De Palma destruttura un genere per ricostruirlo, a suo modo, con un'attrice che ricalca le dive del passato, una su tutte Barbara Stanwyck, de La Fiamma del peccato; la sua “femme” è una ladra scaltra, determinata, che si muove in un'atmosfera rarefatta per sfuggire alle conseguenze del “colpo” che ha messo abilmente a segno.
Nell'era tecnologica la donna più pericolosa ed intrigante si cela nella rete del web: nel film Birthday Girl, Nicole Kidman è, in apparenza, un'ingenua ed eterea ragazza dell'est, arrivata come dono di compleanno nella vita di un uomo solo. Vittima di pratiche sadomaso, in realtà, Nadja è un'astuta ladra che ammalia col sesso la sua preda per poi renderlo schiavo, non solo d'amore. L'angelo del focolare si trasforma in camera da letto in una pornodiva; la donna russa, che non parla la lingua dell'uomo, comunica con l'unica arma che ha a disposizione: il suo corpo. E come una novella Giuditta sovrasta la forza virile più bruta, ma questa volta risparmiando la testa alla sua vittima.

mercoledì 21 luglio 2010

A tu per tu con Andy Garcia


Un artista a tutto tondo Andy Garcia, attore – regista – produttore – compositore – pittore, ma anche un uomo semplice, carismatico e coinvolgente. Nel suo incontro col pubblico al RomaFictionFest intrattiene tutti raccontando di sé e della sua straordinaria carriera, dagli esordi fino ad oggi. Da quando da ragazzino ha abbondonato lo sport per questioni di salute e si è dedicato interamente al cinema, passione che lo ha “infettato” come una malattia, ispirandosi add attori come James Cobrun, Sean Connery e Peter Sellers., ai momenti clou della sua carriera culminati ne Il Padrino III. Sorseggia un caffé, interagisce col pubblico, si concede generosamente come un vecchio amico che parla di sé a cuore aperto. Impeccabile nell’aspetto, indossa un paio di occhiali da intellettuale e sfoggia un paio di baffi che rivela essere non un cambio di look ma un’esigenza di copione per Cristiada, il film che sta girando in Messico con Eva Longoria Parker. A proposito del rapporto tra cinema e televisione, Andy Garcia ha sottolineato la difficoltà, come produttore, di trovare finanziamenti al di fuori del circuito degli studios hollywoodiani.

Esempio lampante è il suo ultimo lavoro City Island, distribuito in Italia da Mikado, prodotto autonomamente per mancanza di investimenti da parte delle majors. Rimpiange gli “anni d’oro” del cinema; nel ’60 e nel ’70 registi del calibro di Coppola e Scorsese raccontavano grandi storie per tutti, mentre ora gli studios hanno un raggio di azione sempre più ristretto investendo solo in produzioni “sicure” e per target di pubblico ben precisi come i blockbusters per adolescenti. Il grande cinema di oggi è totalmente commerciale: Avatar, Spider Man, Il Signore degli Anelli. Così il rapporto piccolo-grande schermo si inverte: le sceneggiature di un certo spessore o trovano produzioni indipendenti o si spostano verso la tv. Sono le tv via cavo americane a distribuire le grandi storie, come la HBO e Showtime. Garcia anticipa che sta per tornare ad interpretare e dirigere una lunga serie, ancora senza titolo, a dieci anni dalla biopic For Love or Country: The Arturo Sandoval Story, tv-movie del 2000 nominato agli Emmy dove l’attore interpretava il famoso trombettista cubano, proiettata per l’occasione al RomaFictionFest. Come regista, Andy Garcia dichiara il suo interesse verso storie più umane e meno fantastiche, non a caso gli innumerevoli progetti a cui ora sta lavorando esplorano alcuni aspetti di vite straordinarie.

Il film dal titolo Hemingway e Fuentes, ad esempio, si focalizza sul periodo cubano del noto scrittore dell’Illinois, che nel film ha il volto di Anthony Hopkins, e della sua amicizia con il pescatore Fuentes, interpretato dallo stesso Garcia. L’amore per Cuba scorre nelle vene di Andy Garcia, così come la sua passione per la musica. Cuba è musica -dice Andy- ma non è un’isola felice. «Tutti i luoghi del mondo hanno problemi ma sono liberi, Cuba no». Il suo primo ricordo di Roma, durante la lavorazione de Il Padrino III, non è dei più felici: «Abitavo in una casa a Quarto Miglio e la prima notte uno zingaro entrò in casa mia spaventandomi a morte anche se non c’era niente da rubare, solo le mie valige e il pianoforte che stavo cominciando a studiare. Volevo chiamare la polizia, ma non conoscevo il numero di emergenza italiano. Passai la notte in bianco e la prima mattina di lavorazione ero uno straccio». Il suo segreto? Avere una “testa dura”, la stessa che gli ha permesso di diventare compositore della colonna sonora del film La Città Perduta, iniziando a suonare il piano da autodidatta.
Del cinema italiano adora il Neorealismo e dei cineasti di oggi apprezza Tornatore, mentre tra gli attori nomina l’amico Beppe Fiorello e Giancarlo Giannini che definisce un interprete superbo. Tra i suoi maestri ispiratori ci sono Coppola, Gordon Willis (direttore della fotografia de Il Padrino), Sean Connery, tutti artisti con cui Garcia ha avuto l’occasone di lavorare. Il fuoco sacro dell’arte è ancora vivo in Andy Garcia che ha trasmesso la sua stessa passione per il cinema alle sue figlie e che ora sembra indirizzato più verso la regia che verso la recitazione, perché -dice- ha ancora tante storie da raccontare e ama osservare il pubblico, le sue reazioni, comunicando al di fuori degli schemi imposti dalle grandi produzioni e dai film con un’anima puramente commerciale. Il RomaFictionFest Award for Artistic Excellence ha premiato la carriera di un artista che sa continuamente reinventarsi, senza cadere in sterili distinzioni tra “cinema e tv”. «Non c’è più differenza fra cinema e televisione. Esiste solo un cinema buono e uno cattivo». Andy ci insegna che non sempre “il medium è il messaggio”: l’arte può trovare diversi canali di comunicazione e forme d’espressione purché sia autentica.

venerdì 21 maggio 2010

Cristina's Big Adventure in Cannes




Yes We Cannes. Di sicuro non lo possono asserire tutti con convizione. Sì, perché Cannes nel suo tourbillon di star mondiali e abiti d'haute couture, di limousine e yacht chilometrici, di modelle anoressiche e signore ingioiellate avvolte in stole di pelliccia, non è per tutti, o meglio, non è per chiunque. Si respira profumo Chanel n.5 nell'aria, gli occhi sbrilluccicano alla vista di cotanto lusso e glamour, tra hotel a cinque stelle e le vetrine più belle del mondo con manichini dorati (o d'oro?) e vestiti che vanno dai 5 mila euro in su. A Cannes ci sono i divi, i ricconi d'alta società alla Paris Hilton, giusto per intenderci, e poi c'è tutto il resto, “ le peuple”. L'éprit de grandeur francese del festival “cannois” incombe sul comune mortale come la nube del vulcano Eyafjallajokul .
Nulla a che vedere con lo spirito vacanziero della mostra veneziana in cui può capitare passeggiando di trovarsi faccia a faccia con Quentin Tarantino, vedere Ewan McGregor salire sul battello e Jude Law fare colazione al Des Bains. Nulla di tutto questo. Io che a Cannes ero in veste “ufficiosa” più che ufficiale e con una missione non proprio segretissima e alquanto impossibile, ossia incontrare Tim Burton,”Monsieur le Président”, ho avvertito tutta l'ostilità e l'inconsistenza di questo circo stellare, composto da divi, star e starlette, produttori e pseudo-produttori, attricette in vetrina, imprenditori milionari ed escort di turno. I film, che dovrebbero essere il fulcro dell'evento cinematografico più prestigioso, sembrano quasi far da contorno ai vari Monteé des Marches, parties esclusivi, aste di beneficienza e compleanni blindatissimi di femmes fatales come Naomi Campbell e Vanessa Paradis. Ognuno deve fare il suo spettacolo, avere i propri quindici minuti di fama, bagnarsi con la pioggia di flash per soddisfare la vanagloriosa esigenza di “esserci a tutti i costi”, anche se non si sa bene a fare cosa. E io che invece un obiettivo, seppur folle, ce l'avevo, mi son data da fare sin dal primo giorno.
Mi sono posizionata per 12 ore con una sedia davanti al Palais, come gli habitués del festival son soliti fare, per attendere “le tapis rouge”, e lui, Tim Burton ( nome che i francesi si ostinano insolentemente a pronunciare col proprio accento!). Dodici ore sotto un sole cocente mentre bizzarrie di ogni sorta capitavano sotto i miei occhi: Charlie Chaplin resuscitati, sexy Avatar, Supereroi, un vecchio che voleva suonare la Marsigliese urtando la sensibilità della polizia.
Dodici interminabili ore in cui mi è successo di tutto: mi hanno accusato a torto di aver rubato la sedia su cui ero seduta, sono stata fermata in malo modo dalla “gendarmerie” perché nel momento in cui mi ero allontanata per andare alla toilette avevano chiuso le transenne e di conseguenza sono caduta in modo memorabile per attraversarle, mi hanno intervistato e fotografato, e non ultimo, mi sono ustionata! Tutto questo per pochi, evanescenti istanti di Tim che scende dall'auto, insolitamente pettinato e vestito in modo impeccabile. Ma la cosa di cui meno vado fiera e che le donne di tutto il pianeta non mi perdoneranno è aver rifiutato l'autografo di quell' esemplare unico di maschio latino che è Benicio Del Toro. Eh sì, perché quando lui si è avvicinato io avevo in mano il primo libro scritto da Tim (The Melancholy Death of Oyster Boy ) in mano e di certo la firma di Benicio lì sopra non era appropriata. E così dopo avergli negato il libro, gli ho semplicemente stretto la mano e lui incredulo mi ha fissato con la sua aria assonnata da bad boy. Epici momenti.
Delusa e affranta, dopo varie alzatacce alle 6 di mattina per tentare di beccare Mr. Burton uscire dall'Hotel Carlton, dove risiedeva, decido, mio malgrado, di preparare la valigia e tornare in Italie.
Il giorno della mia partenza ricevo a sorpresa una telefonata: un'amica mi aveva procurato un'invitation. Eh sì, perché per vedere i film in concorso al Grand Théâthre Lumière, dove solitamente vi è la Giuria del festival, occorre un invito speciale. Un invito che è vietato vendere o comprare e che molti cercano di procurarsi piazzandosi davanti al Palais, dalla mattina con abito da sera o smoking, pregando che qualche invitato abbia un biglietto in più da regalare con estrema generosità. Il film per cui avevo ottenuto l'ambita invitation era un'opera africana, L'homme qui crie: la probabilità che Tim ci fosse era del 50%. E così cerco un posto strategico e col binocolo monitoro l'entrata delle “personnalités”: ad un certo punto nelle lenti del mio binocolo compare lui, il “mio” Tim che noncurante dell'etichetta sorseggia un caffé in un bicchierino da take away.
Inutile dire che il mio tentativo di avvicinarmi a lui fallisce miseramente. Ma, al termine della proiezione, di cui sinceramente dico di non aver capito nulla per l'emozione, con molta nonchalance mi dirigo verso Tim. Lui è attorniato da bodyguards e fans giapponesi, ma seppur incredula e tachicardica riesco a farmi firmare il suo libro sul Bambino Ostrica. Era proprio lì, davanti a me, più alto di come lo immaginavo, con la sua giacca gessata oversize, una montagna di capelli ribelli, un viso picassiano. Sembrava uscito da uno dei suoi disegni, un cartoon solo in carne ed ossa, Edward Scissorhands solo senza forbici per mani. Riesco a fermarlo e a recapitargli un messaggio scritto per lui: «Tim, a letter for you», lui prende la lettera e si volta per guardarmi in faccia. Mi sorride e mi dice «Thank you», con un fare gentile che da solo basta a rivelare la bellezza e l'umanità di chi lo possiede. Come se fosse la cosa più inaspettata del mondo ha accolto il mio messaggio, il suo sorriso mi ha comunicato stupore e gratitudine, ricambiando e rafforzando l'amore e la devozione per il grande, geniale cineasta qual è, e per l'uomo straordinario che si cela dietro di esso.

domenica 2 maggio 2010

Agora


Cosmo in greco non vuol dire grande, né infinito, né meraviglioso. Vuol dire ordine. Un ordine ben rappresentato dalle stelle così dette “erranti” che in realtà seguivano delle traiettorie ben definite per rioccupare periodicamente la stessa posizione in cielo rispetto alle stelle propriamente dette e considerate "fisse". Un ordine che noi umani non siamo in grado di seguire con i nostri moti imperfetti di animo e di pensiero, con le nostre esistenze “erranti”, infinitamente piccole e insignificanti paragonati alla grandezza dell'universo. Il regista spagnolo Alejandro Amenabar in Agora si muove su questi due livelli: terra e cielo.

Da un lato ripercorre le vicende storiche di Alessandria d'Egitto del 391 dopo Cristo tra le insurrezioni dei cristiani prima contro i pagani e poi contro gli ebrei, dall'altro segue le scoperte della scienza custodite gelosamente nel tempio del sapere, la biblioteca della città.

A fare da fil rouge tra terra e cielo vi è la storia di una giovane scienziata, Ipazia, ultimo baluardo di un mondo pagano che si affida alla ragione, all'ordine del pensiero, ad una umanità laica nel quale la pietas non è l'attributo di un'entità superiore, ma un elemento imprescindibile dell'essere umano in quanto tale. Ipazia, incarnata nella bellezza giunonica e senza fronzoli di Rachel Weisz, rappresenta l'estremo tentativo di riconciliare le opposizioni sotto un cielo unito e perfetto, imperscrutabile e perenne. E' simbolo di un'epoca in agora2decadenza che il regista ci racconta attraverso i fasti di mosaici, colonne, affresci ormai in declino, tra le folle deliranti in cui ognuno uccide il proprio fratello in nome di una religione che predica amore e perdono. Le urla di dolore e di morte si propagano tra le stelle, diventano un'eco perso nel tempo e nello spazio che possiamo udire ancora oggi perché la Storia, proprio come le stelle erranti, segue un percorso circolare, in cui cambiano gli scenari della medesima condizione umana regolata dalla legge di sopraffazione e dall'istinto di sopravvivenza. Ipazia è emblema di un'umanità e di una femminilità nuova , condottiera fino all'ultimo con le sole armi del sapere, della libertà e del perdono, si consacra a quel cielo che resta lo stesso, unito e perfetto, anche nel caos e nella disperazione. Contesa tra l'amore del suo schiavo e quello di uno dei suoi consiglieri che poi diverrà prefetto, la scienziata sarà vittima della setta cristiana dei parabolani e del vescovo Cirillo. Amenabar decide di non rappresentare la violenza e la crudeltà dell'uccisione di Ipazia torturata seviziata e lapidata dai cristiani. Nonostante le tematiche forti del film il regista mantiene sempre un distacco, una freddezza, privilegiando la teatralità della rappresentazione, dalle ambientazioni alla scelta dei costumi. Sceglie di filtrare la Storia attraverso lo sguardo lucido e sapiente di Ipazia, le panoramiche sulla città e nelle ampie inquadrature del cosmo, dellla terra, di quel cielo a cui Ipazia ha dedicato un'intera vita e sotto il quale, nonostante il tempo sia passato, non siamo mai cambiati.

I cattivi del cinema in libreria


Bad Boys - La figura del Cattivo nell'immaginario cinematografico è un libro edito da Morpheo Edizioni, scritto da Marcello Gagliani Caputo, Sergio Gualandi e Andrea Salacone. Partendo dall'assunto hitchcockiano secondo il quale "più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film", i tre autori esplorano l'universo dei cosidetti cattivi nell'immaginario cinematografico, tracciando un fil rouge che parte dal cinema muto e ci conduce fino ai giorni nostri.

Chi sono i cattivi del cinema? E sopratutto perché il cinema ha bisogno dei "villains", dei cattivi di turno? Semplice, non solo perché essi costituiscono, insieme all'eroe o al protagonista, il perno della narrazione, ma perché rappresentano le nostre paure più profonde, o anche perché no, il nostro desiderio di ribellione e trasgressione. I cattivi non si dimenticano, tracciano un solco profondo nella nostra memoria, si insinuano nella nostra fantasia, ci risucchiano nel loro vortice di follia e straordinarietà. Il cinema attinge a piene mani ai miti, alle leggende popolari, a opere letterarie di grande valore e ci restituisce personaggi universalmente riconosciuti con le fattezze di attori talentuosi e coraggiosi .
Basti pensare al volto spettrale di Bela Lugosi nei panni del conte più cattivo della storia, Dracula, al Frankestein di Karloff o al "Mad Doctor" Vincent Price. Figure del male si sono incarnate negli anni in Christopher Lee, e insani pensieri hanno abitato la mente dell'istrionico Jack Nicholson. Anthony Hopkins ha invece dovuto seguire il motto "homo homini lupus" per consacrare il suo talento ad uno dei cattivi più terrorizzanti degli ultimi anni, Hannibal Lecter, mentre De Niro diventa il "bad boy" per eccellenza "non solo chiacchere e distintivo", il mefistofelico John Malkovich interpreta la perfidia più subdola e Christopher Walken diventa un "tagliatore di teste" sadico che si ispira ai cattivi più celebri che lo hanno preceduto. Anche le donne hanno la loro dose di cattiveria: chi non ricorda la malvagia Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane?. Come non lasciarsi soggiogare dal mistero della Dama Nera Barbara Steele e dal fascino pericoloso di Glenn Close? I "bad boys"(e "girls") abbracciano trasversalmente generi e cinematografie differenti, riescono continuamente a riciclarsi e a riproporsi. Evidentemente conoscono davvero il segreto dell'immortalità.

giovedì 29 aprile 2010

Tim Burton e la fabbrica dei sogni


«Non sono cresciuto in una città d’arte europea, ma nel sobborgo della plastica e dei videoclip. I film horror guardati in televisione sono state le mie favole di bambino senza nonna». Così parla di sé, Tim Burton, autore postmoderno, divenuto fenomeno di culto, per la capacità creativa di attingere dal cinema del passato un fondo comune di immagini, mescolando i classici con la cultura pop, attraverso un’opera di riciclaggio dei materiali più vari della cultura di massa.

Il cineasta californiano ha prodotto un corpus di opere singolarmente personale, contrassegnate da uno stile visionario inconfondibile, seppur entro gli ambienti convenzionalmente commerciali dell’establishment hollywoodiano. La prospettiva cinematografica di Burton è la sua prospettiva, ogni singola componente dei suoi film è permeata dal suo sguardo e abitata dallo spettro della sua infanzia tormentata e triste.

Gli aspetti salienti della sua produzione sono da ritrovarsi e nella forma e nel contenuto: l’estrema cura nella composizione delle immagini, in ogni singola inquadratura, sin dai titoli di testa, l’uso simbolico del colore, un gusto espressionista, il costante richiamo al goticheggiante e al meraviglioso, i leit-motiv di Danny Elfman e l’ossessivo interesse per certi topoi tematici, quali gli outsiders e i freaks, inevitabilmente connessi al “mito” della sua infanzia, sono tutti elementi che danno vita alla rappresentazione burtoniana in un gioco di rimandi e allegorie in una visione estremamente soggettiva, immaginativa e immaginifica della realtà.

Nato il 25 Agosto 1958 a Burbank, quintessenza del sobborgo californiano anni Trenta, nonché sede storica degli studios di animazione della Walt Disney, Tim sviluppa sin da giovanissimo la passione per il disegno e per il cinema, sopratutto i film di serie B (non a caso dedica un suo film ad Ed Wood, considerato “il peggior regista del mondo”), quelli giapponesi (Godzilla), il cinema trash messicano, gli horror movies, i cartoons con una predilezione particolare per le animazioni stop-motion di Ray Harryhausen.

Certi miti infantili, quali Vincent Price, e l’influenza del mezzo televisivo, provocano in lui una sorta di nostalgia per gli “scarti” dell’industria culturale che vengono così riproposti, attraverso un lavoro di riciclaggio e assemblaggio, nei suoi film. Il cinema di Burton è caratterizzato dall’eterna lotta tra una cultura di massa, americana, e una cultura neo-romantica, più europea; opposte visioni che si sintetizzano e riconciliano in una rappresentazione sì personale ma che attinge a miti dell’infanzia, a volte dark, a volte colorati, e ad archetipi dell’immaginario collettivo.

Tutti i film di Burton esprimono la persistenza di una poetica e una fantasia visionaria: il ritorno costante di tematiche, figure, locations e simbologie, unito a una raffinata ricerca stilistica nel design dell’immagine; un’aspra denuncia, seppur venata di umorismo, alla società contemporanea, in particolare alle istituzioni; l’amore per un certo cinema del passato, da quello espressionista ai B-movie, dai film dell’orrore anni Cinquanta a quelli indipendenti di Roger Corman, e le influenze, non propriamente cinematografiche, quali le animazioni stop-motion (la cosidetta tecnica passo-uno ripresa in molti dei suoi film), le fiabe illustrate del Dott.Seuss (il suo How the Grinch stole Christmas ricorda molto Nightmare Before Christmas), ma anche i vecchi cartoons delle Silly Simphonies, che marchiano indelebilmente la poetica, lo stile, le tecniche dell’autore.

Il tema della morte, i sogni cimiteriali (Corps Bride), gli outsiders (Batman, Sweeney Todd), i mostri frankensteiniani (Frankweenie, Edward Scissorhand) racchiusi in città crepuscolari ipermoderne o antiche dimore dal fascino europeo, danno vita al mondo gotico del regista, in bilico tra vita reale ed immaginazione.

Burton usa l’escamotage della fiaba, punto di incontro tra contingenza e straordinario, per esplorare la realtà, filtrandola attraverso il suo sguardo infantile. Trasforma la sua triste e solitaria infanzia, trascorsa in un sobborgo californiano, in una cupa leggenda in cui le fantasie e i sogni dark di un bimbo incompreso diventano una straordinaria realtà atemporale, abitata da spettri bizzarri o malinconici freak dall’animo delicato e sensibile.

Storie surreali si svolgono in un tempo circolare, sconfinano in mondi paralleli, fluttuano in uno spazio che più che fisico è mentale, varcando soglie sospese tra il Bene e il Male, la Vita e la Morte.

I film di Burton esprimono l’idea di un ricordo, rievocano memorie personali ed universali, attingono simboli e personaggi da un immaginario collettivo.

La fiaba consente a Burton di trasfigurare in chiave mitica la propria esperienza personale e la realtà circostante, consentendogli di rappresentare, tramite l’allegoria e la metafora, le contraddizioni del mondo contemporaneo, e la frattura insanabile tra l’individuo e la società.

Il cineasta si pone come un attento testimone del proprio tempo; i suoi personaggi sono pervasi da un sentimento di alienazione, riflettono un disagio esistenziale, sono impegnati nella ricostruzione di una identità frantumata, alla ricerca di un qualcosa che li completi, che li renda umani, che elimini quel malinconico senso di inadeguatezza.

Scheletri senza occhi, bambini-robot, cani-zombie, spose dell’aldilà che ricordano con nostalgia la vita, sono al centro del mondo burtoniano, che quasi sempre è in collisione con l’altro mondo, quello reale, quello che emargina, che non lascia spazio alla creatività e ci priva della libertà di essere quello che si vuole essere, di distinguerci dalla massa informe.

La bellezza di questi esseri solitari non si rivela nell’apparenza ma nella sostanza, matura dalla sofferenza e resta intatta, come congelata nel tempo.

Le storie burtoniane si intrecciano su un unico filo conduttore che è Tim stesso; l’immaginazione tesse la realtà, ci fa comprendere che la nostra esistenza è composta della «stessa materia di cui sono fatti i sogni», per usare un’espressione shakespeariana.

Realtà e fantasia sono espresse non come categorie ontologiche separate e distinte, ma come livelli sovrapponibili ed interscambiabili; il cinema è il mezzo attraverso il quale questa sovrapposizione è possibile. L'opera burtoniana non attinge al reale, ma ricerca l’universale e la fiaba diventa strumento di questa ricerca, essa si configura come un “altrove impalpabile” ma anche come mediazione, un processo di simbolizzazione nel quale l’individuo sperimenta che la realtà interna è trasformabile in senso.

Edward, Jack, Emily, Sally, solo per citare alcuni personaggi, sono espressione visiva, nel loro splendore e nella loro fragilità, della malinconia burtoniana, del senso di fugacità e tragicità dell’esserci, dell’indefinitezza dell’esistenza di ognuno di noi, che è sempre appesa a un filo, sospesa tra la vita e la morte, il sogno e la realtà.
Il mondo eccentrico e vibrante di Tim gravita verso la passione e la forza della narrazione, del cinema, dell’immaginario, della rêverie, senza fare troppe distinzioni tra questi elementi. Ci offre dei frammenti di vite singolari, degli scenari quotidiani e surreali nel contempo, in cui è sempre possibile intravedere un eterno ragazzo, fragile ed introverso, dai capelli arruffati, che vive al confine tra la il possibile e l'immaginabile, tra il tempo nostalgico della memoria e quello circolare della fiaba.

venerdì 23 aprile 2010

Alice in Wonderland


Avevo poco più di cinque quando lessi il mio primo libro: Alice in Wonderland di Lewis Carroll, un'opera solo apparentemente indirizzata ai più piccoli, che continua ad affascinarmi allora come oggi. Una storia che letta da bambini ti segna indelebilmente perché apre la mente e il cuore ai molteplici mondi possibili creati dalla fantasia allo stato puro. Solo un regista come Burton che ha sempre filtrato la realtà con il sogno, poteva riappropriarsi di questa fiaba senza tempo e riproporla in chiave moderna grazie alle tecnologie 3D più avanzate. Il “folletto di Burbank” celebra l'immaginazione ovvero l'essenza stessa della sua arte visionaria e della sua poetica intimista, rileggendo e reinterpretando le avventure di Alice, raccontate da Carroll in due volumi, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Ne esce fuori un film che restituisce spessore psicologico e umanità a personaggi apparentemente privi di senso: dal vibrante Johnny Depp alias Cappellaio Matto, figura insieme folle e profondamente triste, che oscilla tra repentini sbalzi di umore a cui corrispondono altrettante variazioni cromatiche alla superba Regina Rossa, sovrana terribile col volto di un'impeccabile Helena Bonham Carter, talmente ossessionata dalla propria testa di proporzioni smisurate da voler decapitare chiunque gli capiti sotto tiro. Personaggi estremi con sentimenti reali, nel rispetto della tradizione del cineasta. Stavolta Wonderland, o meglio il Sottomondo come lo chiama Burton, rappresenta per Alice (la raffinata Mia Wasikowska) un viaggio iniziatico verso l'età adulta e non più solamente il rifugio infantile in cui preservare i sogni e l'innocenza. Alice è cresciuta, ha 19 anni, fugge ad un destino che non è il suo inseguendo il Bianconiglio col panciotto che la (e ci) conduce nel luogo della nostalgia, dell'infanzia dei sentimenti. La caduta verso il Paese delle Meraviglie è un caleidoscopio di oggetti del quotidiano che nello sguardo stupito si trasfigurano e assumono una valenza simbolica. Lo scenario toglie il fiato: tutto è curato nel minimo dettaglio dai paesaggi ai regni contrapposti delle due sovrane, la Regina Bianca (un'ottima Anne Hathaway) e la Regina Rossa. La prima vive in una sorta di Eden tutto bianco, marmoreo, a tratti spettrale con degli splendidi alberi in fiore e una scacchiera come esercito; la seconda abita in mezzo a un tripudio di cuori rossi, tra ranocchi servitori, scimmie soprammobili e fenicotteri da usare come mazze da golf, con un esercito di carte da gioco, rigorosamente rosse, che rappresenta da solo un buon motivo per vedere il film. In 3D gli altri personaggi dal Brucaliffo al fumo del suo narghilé, allo spettacolare Stregatto che appare e scompare. Chi ama Burton riconoscerà la sua inconfondibile impronta autoriale, le scelte stilistiche, l'umorismo sottile, e ritroverà frammenti, sguardi, paesaggi, suggestioni delle sue opere precedenti quali La Sposa Cadavere, Il mistero di Sleepy Hollow, Edward mani di forbice. Già l'incipit con un Big Ben in perfetto stile gotico appare come una firma, un logo che lo contraddistingue, richiamando alla memoria gli oscuri grattacieli di Gotham City e la Londra sanguinaria di Sweeney Todd. Ecco credo che memoria sia la parola giusta su cui ruota questo film: memoria di un capolavoro letterario entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo, memoria di un tempo segreto e inviolabile come l'infanzia, di Alice e di tutti noi, memoria come sogno in cui i sensi si alterano e la realtà si carica di senso, diviene sur-reale. Ma l'Alice burtoniana è anche una giovane donna che guarda al futuro, e che in qualche modo sa di doversi emancipare da quel mondo di bizzarrie dove tutto è il contrario di tutto, ma che non corrisponde alla falsità e al piattume della vita reale. Credo che se il film avesse avuto ancora più “anima burtoniana”, senza l'intervento tecnico-creativo e l'operazione di marketing spropositata di casa Disney, e sopratutto senza una sceneggiatura che rivela sin dall'inizio l'epilogo finale della storia, sarebbe stato un capolavoro al pari di Big Fish e Edward mani di forbice.Avrei voluto vedere una Alice leggiadra volteggiare tra i sentieri sconosciuti di un mondo dove tutto è ancora grazia e bellezza, caos ed ordine, dove il ticchettìo dell'orologio indica un tempo che si è fermato. E invece la protagonista è lì come un'onda fugace appena tracciata tra immagini incastonate, vive e accese, da cui sa tuttavia di doversi distaccare perché è giunta l'inesorabile ora di crescere. La sua incredibile avventura, sin dalle scene iniziali, appare come un'eco lontana che riecheggia nel vento dei ricordi, ricordi fatti di giochi da abbandonare e di sogni da cui non ci si vorrebbe (e dovrebbe) mai destare. Burton ci lascia nel cuore una malinconica nostalgia per un mondo che sapeva colmare di senso la nostra esistenza quando ancora non aleggiava su di noi (e su Alice) il pesante peso di essere qualcuno e di definire il nostro futuro.

La strategia degli affetti


Alla sua seconda prova registica Dodo Fiori, decide di esplorare il complesso universo delle relazioni umane. In primis, le dinamiche dei rapporti familiari: Paolo, un padre cinico e infedele ha difficoltà a comunicare col figlio adolescente Matteo, un ragazzo problematico reso insicuro dalle eccessive ansie materne. A rendere ancora più fragili gli equilibri della famiglia ci pensa Nina,una ragazza figlia di un vecchio amico con cui Paolo ha un conto in sospeso. L'idea di base è buona, ma Fiori la sfrutta male, tracciando in modo superficiale le complesse strategie degli affetti che intendeva rappresentare. La regia è piatta, i dialoghi non sempre sono pertinenti; il film prende ritmo pian piano, con un'apertura titubante in cui si fa fatica a capire il perno della narrazione. Gli attori cercano di dare pathos ai personaggi, a volte anche esagerando, ma la sceneggiatura non sempre riesce a tenere le fila del discorso, con relazioni che si intrecciano, ricatti emotivi, rabbie inespresse. Un film come La Strategia degli affetti che che verte attorno al rapporto umano e a tutte le sue possibili declinazioni, deve saper cogliere le sfumature dei personaggi e non solo tratteggiarne i contorni, assumersi il rischio di andare più a fondo, percepire i chiaroscuri, far parlare i silenzi. La coralità del film si perde così in una serie di storie che non riescono a convergere in un'unica direzione. Peccato per un cast che poteva essere meglio valorizzato. Ma del resto fare un film corale, in cui si percepiscano le singole voci, armonizzandole fra loro per creare una visione d'insieme non è impresa facile, tanto più quando ci sono di mezzo i rapporti filiali e le crisi d'identità adolescenziali.

Un’italiana a New York


L’attrice siciliana Nicole Grimaudo è attesa a Manhattan al Tribeca Film Festival dove potrebbe essere premiata per la sua coinvolgente interpretazione in Mine Vaganti di Ozpetek.
di Maria Cristina Locuratolo 11 aprile 2010 09:34

Ha un fascino intrigante alla Natalie Portman, ma gli occhi espressivi, penetranti e i colori mediterranei ne tradiscono le origini, trasmettendoci tutto il calore della sua terra. Classe 1980, catanese di Caltagirone, Nicole debutta quando la sua bellezza solare è ancora acerba nel primo talent show (only for girls) della tv italiana, Non è la Rai, accanto ad un’altrettanto giovane Ambra Angiolini. Dopo un’esperienza teatrale, la Grimaudo inizia con grinta la sua carriera da attrice, con la fiaba televisiva Sorellina e il principe del sogno di Lamberto Bava, alla quale segue la fiction Racket, al fianco di Michele Placido. A 18 anni Nicole fa il suo ingresso nel mondo del cinema, grazie ai fratelli Taviani che le affidano un ruolo in Tu Ridi. La carriera televisiva continua tra fiction e sit-com, mentre la “grande occasione” teatrale arriva con Amadeus nel 2003, dove l’attrice sarà diretta dal maestro Roman Polanski. Nel 2003, si innamora (per un periodo anche nella vita) di Elio Germano in Liberi di Gianluca Maria Tavarelli.

Instancabile, sul piccolo schermo, la Grimaudo veste i panni di una coraggiosa Tenente Giordano in R.I.S. - Delitti Imperfetti, della compagna di Gino Bartali - L’intramontabile, di una caposala in Medicina generale e di un giovane magistrato ne Il Mostro di Firenze. Il ritorno sul grande schermo è segnato dall’incontro con il regista italo-turco Ferzan Ozpetek ne Il giorno perfetto, film in cui affianca Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea, segue poi Baaria di Tornatore, in cui Nicole è una vedova sicula che si dedica con passione alla propria famiglia. Dopo Baaria è la volta di Mine Vaganti, di nuovo con Ozpetek, un ruolo intenso per Nicole che ne valorizza il talento e che è servito a rafforzare il suo legame artistico con il regista. Nella finzione Nicole è Alba, una ragazza con una vita difficile che si innamora di un ragazzo gay, con cui tuttavia instaura una profonda amicizia. Il film non solo vanta un cast nutrito di attori noti, da Riccardo Scamarcio ad Alessandro Preziosi, da Ennio Fantastichini a Elena Sofia Ricci, ma è stato venduto in ben 15 Paesi, ha ricevuto una buona accoglienza al Festival di Berlino e sarà l’unico film italiano ad arrivare a New York, dove sarà in lizza al Tribeca Film Festival, in programma nei prossimi giorni, per i premi al migliore film, al migliore attore e alla migliore attrice. Il festival newyorkese, in programma dal 21 Aprile al 2 maggio, è una vetrina internazionale di grande prestigio che vedrà protagonisti attori come James Franco ed Edward Norton. In un panorama cinematografico e televisivo che spesso, aihmé, premia la mediocrità, ben vengano stelle nascenti come la Grimaudo, che oltre ad essere bella, ha talento, classe e grinta da vendere.

Quando amore fa rima con cuore (e melassa)


Il regista di Pretty Woman gira un film zuccheroso sull’amore in tutte le sue possibili declinazioni. Un cast di stelle per una commedia di cui si poteva far benissimo a meno.

di Maria Cristina Locuratolo 31 marzo 2010 15:05

Anche i belli piangono. Per amore, s’intende. Su questo (falso?) presupposto Gary Marshall, il regista delle rom-com per eccellenza Pretty Woman, confeziona un film ad hoc per tutti gli innamorati (in)felici. Non a caso il titolo originale del film è Valentine’s Day,(in Italia è il poco fantasioso "Appuntamento con l'amore") giorno celebrativo dell’amore su cui vertono storie differenti, destinate ad incrociarsi in questa unità di tempo. Ci si aspetta un film delizioso come un cioccolatino, ma in realtà la commedia rosa si rivela più che altro una zuccherosa carrellata di “celebrities”, dal bel dottore di Grey’s Anatomy Patrick Dempsey alle “pretty girls” Jennifer Garner, Jessica Alba e Anne Hathaway, dal “babymarito” di Demi Moore Ashton Kutcher alla veterana Shirley MacLaine, senza dimenticare lei, la vera diva, Julia Roberts, ovviamente.

Marshall non si fa mancare neanche il "lupo buono" della saga di Twilight, il palestrato Taylor Lautner, per accaparrarsi una gran fetta di pubblico composto da teenagers adoranti del bel moretto. Fa da sfondo una Los Angeles da cartolina, tutta cuori e fiori per l’occasione. Un film corale in cui però le storie son tenute insieme flebilmente; siamo ben lontani dalla commedia d’amore a incroci Love Actually di Richard Curtis, sebbene si cerchi di imitarne la struttura. Marshall non si fa mancare proprio nulla: c’è il fioraio italoamericano che chiede in sposa la sua compagna, la dolce e ingenua donna innamorata di un uomo che non crede più sposato, l’uomo innamorato di una ragazza perbene che lavora su una linea erotica, una madre soldato in ritorno dall’Iraq, una press agent nevrotica e sola, una coppia di gay innamorati a distanza, amori adolescenziali e della terza età.

In questo pout pourri di sentimenti, nessuna storia o interpretazione emerge sulle altre, nessuna lacrima o risata viene strappata al pubblico. Appuntamento con l’amore si rivela l’ennesima operazione di marketing messa in atto da una major cinematografica, non a caso la Warner Bros ha distribuito il film negli States il giorno di San Valentino, mentre nelle nostre sale è arrivato solo un mese più tardi. Del romanticismo di Pretty Woman c’è ben poco, un film “telefonato” sin dai primi minuti, colmo di visi belli e noti. Sprecati, aggiungerei.

Tim Cavaliere di Francia


Burton e la Cotillard diventano Cavalieri delle Arti e delle Lettere a Parigi.
di Maria Cristina Locuratolo 18 marzo 2010 10:00

Anno fortunato per il cineasta più visionario dei nostri tempi. Successo grandioso al box office, nomina da presidente del prestigioso Festival di Cannes e un’onoreficenza di grande valore in terra francese. Tim Burton e l’attrice Premio Oscar Marion Cotillard sono stati insigniti del Premio del France’s Order of Arts and Letters a Parigi. Il Ministro francese della Cultura Frederic Mitterand ha nominato Burton e la Cotillard Cavalieri delle Arti e delle Lettere presso il Ministero della Cultura della Francia. Il cineasta, accompagnato alla cerimonia dalla moglie Helena Bonham Carter, ha definito il Premio “uno dei più grandi omaggi che abbia mai ricevuto”, e ha aggiunto “Dagli inizi della mia carriera, ho sempre avuto un posto nel mio cuore per la Francia, perché sia che i miei film siano piaciuti o meno, ho sempre pensato che la Francia fosse alla ricerca della poesia, del significato, delle cose che stavo cercando di fare. Infine ringrazia tutti dicendo: “La Francia ha un posto davvero speciale nel mio cuore e mi sento molto più a casa qui che nel mio Paese”. La Cotillard che ha vinto l’Oscar per l’interpretazione di Edith Piaf nel film La vie en rose e che ha recitato in Big Fish, capolavoro di Burton, ha dichiarato invece: “E’ un piacere ricevere questo onore insieme a Tim Burton, colui che mi ha aperto le porte del cinema americano e che è stato sempre un idolo per me”, inoltre ha anche sottolineato quanto si ritenga fortuna per tutto quello che le sta capitando. Burton tornerà in Francia a Maggio come Presidente della Giuria a Cannes, mentre il tornado Alice conquista le platee di tutto il mondo e si prepara a divenire un cult.

venerdì 5 marzo 2010

La paladina delle meraviglie



Burton riveste di nuove sfumature e di un’armatura medievale la fanciulla carrolliana, diventata ormai una donna emancipata.
di Maria Cristina Locuratolo 5 marzo 2010 09:46

Strano ed inevitabile incontro quello tra Lewis Carroll e Tim Burton. Il primo un bizzarro, enigmatico scrittore e matematico dell’Ottocento, con sangue per metà inglese e per metà irlandese, affetto da una fastidiosa forma di balbuzia e con una predilezione per gli indovinelli, i giochi di logica e la fotografia. Il secondo, un disegnatore dallo stile inconfondibile divenuto cineasta geniale, americano con lo sguardo rivolto verso l’Europa, una delle menti più creative del nostro tempo. L’immaginifico e claustrofobico mondo, o meglio “sottomondo” della piccola Alice Liddell, creatura letteraria di Carroll, rivive grazie al caleidoscopico sguardo di Burton. Impresa ardua per uno dei registi più amati della contemporaneità, riprendere una storia così profondamente radicata nella cultura anglosassone e mondiale, rielaborarne gli aspetti iconografici e approfondire i riferimenti psicanalitici.

Ma una storia che è la celebrazione dell’immaginazione non poteva non essere affidata che a Tim Burton, il quale ha cercato di coniugare la tradizione di un’opera così viva nell’immaginario collettivo con l’innovazione delle nuove tecnologie, a cui lui in verità non aveva mai voluto prestare molta attenzione. Nasce così l’attesissimo Alice in Wonderland (firmato Disney) che lungi dall’essere una mera trasposizione del libro, si ispira sia ad Alice nel Paese delle Meraviglie che al suo prosieguo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, combinando lo stile e la poetica visionaria burtoniana e quello criptico e non sense di Carroll. Innanzitutto, e ciò è evidente, Burton cerca di restituire umanità ai personaggi surreali creati dallo scrittore inglese: non una semplice carrellata di “weird characters” ma personalità complesse e spesso contraddittorie.

A cominciare dal Mad Hatter alias Johnny Depp; uno sguardo triste sotto il gigantesco cappello rivela tutta la tragicità di un personaggio emotivamente distubato, che passa da momenti di improvvisa ilarità ad altri di pericolosa rabbia. La grandezza di Depp sta nel mostrare la “madness” di quest’uomo dalla personalità multipla che continua a porsi domande senza senso (“Perché un corvo assomiglia ad una scrivania?”) o a cercare parole che iniziano con la lettera “M”, in un modo non ingombrante o macchiettistico, ma con levità e grazia, facendosi percepire la fragilità, la tristezza, dell’inconsapevolezza (o quasi) di qualcosa che non va nella propria mente. Degno di nota anche il personaggio della Red Queen, una meravigliosa Helena Bonham Carter, perfida sovrana col vezzo di tagliare la testa a chiunque perché, in realtà, odia la sua che è troppo grande. Una dittatrice terribile che vive in perenne competizione con una sorella graziosa e ben voluta dai propri sudditi, la Regina Bianca (una ironica e marmorea Anne Hathaway). Ma al di là della caratterizzazione dei personaggi, che sono il vero punto di forza della storia di Alice, c’è da dire che il regista ci regala momenti di autentico “burtonismo”. A cominciare dall’incipit, con il simbolo dell’amata Londra in primo piano, un Big Ben più gotico che mai, alle scene iniziali in cui un’Alice ormai diciannovenne partecipa ad un party esclusivo pieno di ipocriti ricconi e gentlmen per niente raffinati dove verrà chiesta in sposa da un giovane insulso e conformista. Per poi arrivare al momento clou, ossia l’entrata del Bianconiglio tra i cespugli fino al precipitare di Alice nella sua tana verso Wonderland.

La discesa verso il Rabbit Hole è un viaggio attraverso i ricordi di Alice, ma anche i nostri. Ritroviamo oggetti della nostra infanzia e come un lungo flashback raffiorano altri momenti cinematografici che hanno accompagnato la nostra tenera età, dal Mago di Oz quando Dorothy è nella sua stanza e si dirige “over the rainbow” alla stessa Alice disneyana del 1951. Da allora però la piccola Alice (Mia Wasiwoska) è cresciuta, è diventata una giovane donna che deve prendere in mano la sua vita e si sente smarrita e confusa. Il ritorno ad “underworld”, che lei da piccina chiamava “wonderland” le servirà per riconnetersi col suo vero “io” e per tracciare il suo destino. Wonderland riletta dallo sguardo di Burton contiene elementi già presenti nella sua filmografia, é come se il regista rimescolasse la fantasia, riproponendoci, in un modo neanche troppo celato, piccoli frammenti dei suoi film, da Edward Scissorhands a La Sposa Cadavere passando per Sleepy Hollow. E’ senza dubbio nel design dell’immagine, nella cura del dettaglio che Burton dà il meglio di sé, e sopratutto nella contrapposizione dei mondi, tanto cara al regista nelle sue opere: qui abbiamo da un lato il mondo rosso tutto a cuori della terribile Regina con il suo esercito di carte delizioso e dall’altro il regno tutto bianco, fatto di marmo, con alberi di fiori di pesco e paesaggi mozzafiato, e una schiera di soldati composta da gigantesche pedine della scacchiera. Perfetti anche tutti gli altri personaggi di “contorno”, a cominciare dall’evanescente Stregatto, il più riuscito di tutti, e dal “fumoso” Brucaliffo.

Ho trovato il 3D superfluo, perché non è un film che si basa sull’effetto. Non ho apprezzato particolarmente la sfumatura fantasy che ci ha mostrato un’Alice paladina del regno come Atreiu ne La Storia Infinita.. A mio parere a penalizzare il film sono state sia lo smisurato battage pubblicitario del film che il finale già anticipato nelle primissime scene del film. Perché sì è vero che tutti conosciamo la storia, ma è altrettanto vero che la rilettura di Burton doveva rimanere una sorpresa. Credo, inoltre, che il regista abbia dovuto trovare un compromesso con la Disney per questo film, a discapito del suo estro creativo. Ed è davvero un peccato, perché penso che Tim avrebbe prediletto l’aspetto criptico, quello più oscuro, claustrofobico, non sense della storia. Un’Alice smarrita nella propria fantasia come Edward Bloom in Big Fish. Un’Alice che riporta il sogno nella realtà e la realtà nel sogno con la stessa leggiadria di una danza nella neve come in Edward Mani di Forbice o sotto una pioggia di fiori come in Sleepy Hollow. Una eterna fanciulla resa immortale dalle storie incredibili che abitano in lei.