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martedì 16 dicembre 2008

Gomorra: dopo gli EFA in corsa verso l’Oscar


Cinque premi su cinque candidature: il film Gomorra di Matteo Garrone, tratto dal libro di Roberto Saviano, trionfa a Copenaghen nell’European Film Awards. Ed ora è in lizza per i Golden Globes, preludio agli Oscar.
di Maria Cristina Locuratolo 16 dicembre 2008 09:53

L’Italia ha stravinto agli “European Film Awards” di Copenaghen: cinque premi per Gomorra su cinque nominations è un risultato più che entusiasmante. Matteo Garrone ha ottenuto il Premio come Miglior Regia, mentre Maurizio Bracci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Massimo Gaudosio, Roberto Saviano e lo stesso Garrone hanno portato a casa il Premio per la Miglior Sceneggiatura. Miglior attore Roberto Servillo, premiato anche per la sua interpretazione ne Il Divo di Paolo Sorrentino e, dulcis in fundo, riconoscimento anche per il direttore della fotografia intitolato a Carlo Di Palma a Marco Onorati. A suggellare una serata trionfale il Premio come Miglio Film Europeo del 2008, consegnato a Matteo Garrone dal Presidente della Academy, Wim Wenders, e dal commissario europeo Viviane Reding. Un successo italiano che non si replicava da ben dieci anni quando con La vita è bella Roberto Benigni conquistò due premi all’Acadamy Awards e il Grand Prix a Cannes, assegnato anche a Garrone. Considerando poi la recente candidatura di Gomorra ai Golden Globes, la cui cerimonia si svolgerà l’11 Gennaio, l’Oscar potrebbe essere dietro l’angolo.

Il “fenomeno” Gomorra, film tratto dal best seller omonimo dello scrittore Roberto Saviano, è riuscito ad interessare paesi diversi e lontani dalla realtà italiana grazie alla potenza del linguaggio e alla materia trattata. I luoghi filmati da Garrone, sono teatro di una guerra continua, una “zona grigia”, come lui stesso l’ha definita, in cui legalità ed illegalità si confondono, dove la gente vive senza una consapevolezza reale delle proprie condizioni. Un ritratto intenso, a tinte forti, che mostra all’Europa la faccia crudele e “malata” del nostro Paese. Un’Europa che sta vivendo un periodo di grande fermento creativo sotto il profilo cinematografico, che si sta rivelando una fucina di talenti da scoprire e riscoprire. Oltre all’ “en plein” di Gomorra altri riconoscimenti degni di nota a questi Academy Awards: Kristin Scott Thomas ha vinto il Premio come Miglior Attrice in Il y a longtemps que je t’aime (I’ve loved you so long); il Premio d’Eccellenza è stato consegnato a Magdalena Biedrzycka, costumista nel film Katyn; decretato Miglior Compositore Max Richter per Waltz with Bashir; Rivelazione dell’anno il film Hungher, diretto da Steve McQueen e scritto da Enda Walsh e lo stesso regista; Premio della Critica ad Abdellatif Kechiche per Le Grain et le Mulet (The Secret of the Grain/ Couscous); l’Oscar al Miglior Documentario è andato al film René di Helena Trestikova e quello al Miglior Corto a Frankie di Darren Thornton.

Premio Speciale alla carriera per l’attrice inglese Dame Judi Dench, accolta da una standing ovation, e un riconoscimento particolare ad artisti europei che hanno dato un forte contributo con la loro arte al cinema mondiale come Sren Kragh-Jacobsen, Kristian Levring, Thomas Vinterberg riuniti nel movimento cinematografico danese "Dogma" capitanato dal più noto Lars von Trier. Infine il pubblico ha deciso di assegnare il premio “al maghetto” più famoso del mondo nel film Harry Potter e l’Ordine della Fenice, diretto da David Yates, scritto da Michael Goldenberg. Ma anche dietro questo consolidato successo si cela un talento europeo, quello della scrittice inglese Joanne Rowling, a riprova del fatto che il Vecchio Continente poco o nulla ha da invidiare al cinema a stelle e strisce, sopratutto ora che Hollywood non sembra così irraggiungibile

venerdì 14 novembre 2008

Incontro con Juan Antonio Bayona


Una piccola produzione che porta il nome di Guillermo del Toro, già divenuta un "cult" in Spagna; "The Orphanage" è un film, in arrivo in Italia ma già vincitore di ben 7 Premi Goya e candidato agli Oscar 2008 tra i migliori film stranieri. Il regista Juan Antonio Bayona è giunto a Roma, alla Casa del Cinema, per presentare la pellicola alla stampa italiana, regalandoci un prezioso "gioiello" d'autore che riconferma la vitalità ed il talento dei cineasti spagnoli.

Il suo film prosegue la tradizione dei film horror spagnoli. Quali sono stati i suoi punti di riferimento?
Juan Antonio Bayona: Sicuramente i due film di Narciso IbáHez Serrador "¿Quién puede matar un niño?" ("Come si può uccidere un bambino?") e sopratutto "La Residencia" ("Gli orrori del liceo femminile") sono state grandi fonti di ispirazione. Già dal titolo del mio film si capisce come quest'ultimo sia stato un punto di riferimento per me. Altri film che mi hanno ispirato sono stati "The Others" di Alejandro Aménabar e "Lo spirito dell'alveare" di Victor Erice, un'opera che parla di fantasmi solo indirettamente e visivamente molto illuminante. Inoltre "The Orphanage" trae spunto anche dai film che vedevo da bambino, che non erano propriamente horror ma più film politici che a me ispiravano un gran terrore. Se dovessi scegliere sicuramente rifarei "La Residencia", un film del 1969 che ha di gran lunga precorso i tempi, per la sceneggiatura e le ambientazioni.
C'è una grande vitalità del cinema spagnolo di genere degli ultimi tempi. A cosa è dovuto secondo lei?
Juan Antonio Bayona: Credo che attualmente in Europa, in generale, si stia facendo il miglior cinema fantasy ed horror del mondo. Il cinema americano è caratterizzato da grandi produzioni che non sempre si rivelano di alta qualità.Il cinema europeo è più interessante perchè è più trasgressivo perchè sa uscire fuori dai limiti di una categoria. I registi europei hanno più libertà creativa mentre in America hanno paura di sperimentare.
Come è nata la collaborazione con Guillermo Del Toro?
Juan Antonio Bayona: Ho conosciuto Guillermo circa quindici anni fa, al Festival di Sitges, quando ero ancora più basso ed ero minorenne. Mi finsi giornalista e lo intervistai. A lui piacque molto la mia intervista e restammo in contatto. Quando frequentavo la scuola di cinema gli inviavo i miei lavori e lui non esitava a darmi ogni volta il suo parere. Quando gli ho sottoposto questa sceneggiatura, lui rimase entusiasta tanto da non limitarsi a produrre il film ma a presentarlo anche.
Lo stile del suo film è classico quasi barocco. E' stata una scelta studiata?
Juan Antonio Bayona: La scelta dello stile per me non è una cosa pianificata, ma dipende dall'istinto. Per me conta il lavoro della macchina da presa, scrivo una sceneggiatura pensando per immagini. Molto importante per me è stata l'influenza dei film di Hitchcock, la loro suspence. Penso che una storia vada raccontata in modo classico puntando molto sul montaggio.
,La maschera di Tómas, il personaggio emblema del film, ricorda con la sua maschera di pezzi cuciti insieme un pò qualche personaggio burtoniano, un pò le maschere messicane. Vi è una simbologia dietro o è stata una scelta casuale?
Juan Antonio Bayona: Nel film tutti i personaggi hanno un lato oscuro. Tómas rappresenta il lato oscuro di Simon, mentre Laura è il riflesso positivo di Benigna, l'assistente sociale che lavorava nell'orfanatrofio. La casa stessa è un personaggio. La mascherà è stata una scelta logica, uno stratagemma ingenuo di una madre disperata, Benigna, che la usa per nascondere la deformazione del figlio, un modo di donare un sorriso a un bimbo dal volto deformato.
Come ha detto, una notevole importanza hanno i luoghi fisici nel film. Cosa rappresenta la casa?
Juan Antonio Bayona: La casa più che un personaggio è uno stato mentale dal quale Laura, la protagonista, non vuole distaccarsi perché per lei quella casa rappresenta un'infanzia idealizzata, una fuga dal mondo degli adulti e dalle responsabilità. Laura è un personaggio infantile che non sa rapportarsi con l'età adulta. Il riferimento è chiaramente alla fiaba di Peter Pan che viene citata nel film. D'altro canto Laura è anche una donna molto coraggiosa, perché alla fine decide di restare in quella casa da sola. La ricerca della felicità per lei significa un ritorno a quell'infanzia idealizzata che è incarnata dalla casa.
Perché ha scelto Bélen Rueda nel ruolo di Laura?
Juan Antonio Bayona: Conoscevo Bélen perchè l'ho vista in un lavoro televisivo. Ha interpretato il cortometraggio di un mio amico e naturalmente l'ho ammirata in "Mare dentro" di Aménabar, riferimento per me importante. Quindi la scelta di Bélen è stata un po' la chiusura di un cerchio e devo dire che sono stato ampiamente ripagato perchè si è rivelata un'artista magnifica, la scelta migliore per il film. Si è impegnata al massimo e ha dato molto più di quanto mi sarei aspettato.
Perché ha deciso di circondarsi di tecnici e sceneggiatori alla prima esperienza?
Juan Antonio Bayona: E' vero "The Orphanage" non è solo il mio primo film, è anche il primo film per lo sceneggiatore, il direttore della fotografia, il compositore, il montatore...tutte persone con cui ho lavorato fin da quando giravo spot e corti. E' stata una fortuna che i produttori abbiano accettato la proposta di coinvolgerli nel film perché questo ha portato un'inedita freschezza al lavoro.
Alla luce del successo internazionale di questo film, quali proposte sta valutando?
Attualmente ho un paio di progetti in via di sviluppo. Uno prevede ancora la collaborazione con Guillermo Del Toro e sarà prodotto dalla Universal. La storia parla di un'epidemia di paura negli Stati Uniti in risposta al panico diffuso nella popolazione da parte del governo. Un altro progetto sarà invece realizzato in Spagna perché ho intenzione di muovermi su entrambi i mercati, europeo e americano, dato che sono molto legato al mio Paese.

"The orphanage": L'eco dei ricordi


Prima prova eccellente del regista Juan Antonio Bayona; un film, a metà tra horror e dramma, sapientemente misurato nei tempi.
Valutazione:
Venerdì 14 novembre 2008
Già dai titoli di apertura il film introduce lo spettatore a quello che sarà il perno su cui ruota l'intera vicenda; lo strappo con cui si presentano i titoli di testa sta ad indicare quell'irreparabile "strappo" emotivo ed affettivo vissuto dai personaggi, il trauma della separazione da un passato che si credeva idilliaco o da qualcosa di caro che potrebbe venire a mancare in futuro.
Bayona usa abilmente tutti i simboli e gli oggetti classici del genere: presenze oscure, case stregate, bambini e bambole, sogno e follia... "The Orphanage" risente dell'influenza di grandi capolavori come "The Others" di Aménabar e altri film di autori ispanici, pur mantenendo un'identità propria, una sua originalità. Il regista ha misura e senso del ritmo e dell'inquadratura, dosa bene pause e silenzi, punta sul sonoro per creare mistero e suspence.
La pellicola non è semplicemente un horror; ben lontana dalle produzioni hollywoodiane che si affidano molto agli effetti speciali, mostra un insolito spessore psicologico che gli conferisce delle sfumature melodrammatiche. Il terrore non scaturisce da qualcosa di stra-ordinario ma dai nostri incubi personali: la malattia, la morte, tutte "quelle zone oscure" della vita che minacciano la nostra stabilità. L'unico rifugio pertanto resta il "sogno", quell'isola che non c'è" in cui i nostri ricordi vengono preservati e gli "strappi" ricuciti.

lunedì 22 settembre 2008

Una coppia di irresistibili idioti


Nel nuovo film dei fratelli Coen, George Clooney e Brad Pitt, interpretano due cretini totali. Una questione "delicata", quella degli idioti, dicono ironicamente i registi, "sopratutto in un Paese con un alto tasso demografico come gli Stati Uniti".

di Maria Cristina Locuratolo 22 settembre 2008 10:51

Irresistibilmente belli e perfettamente idioti. Così George Clooney e Brad Pitt hanno definito i loro personaggi in Burn after Reading- A Prova di Spia, una demenziale spy comedy firmata Joel ed Ethan Coen, film evento della 65 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. I registi Premio Oscar di Non è un Paese Per Vecchi tornano al puro divertissement puntando su una sceneggiatura che sembra essere stata scritta e pensata per gli attori, una satira pungente ed intelligente dalle pieghe narrative che toccano la fantapolitica. Il cast è stellare, oltre a Clooney e Pitt, ritroviamo l’algida Tilda Swinton e John Malkovich, perno della vicenda, nonché la bravissima Frances Mcdormand, moglie di Joel, e Richard Jenkins, superbo caratterista di cinema e tv statunitensi.

L’inizio del plot è già fulminante: l’agente della CIA Ozzie Cox (John Malkovich), licenziato per problemi di alcolismo, scrive memorie infuocate con informazioni dettagliate e dal contenuto altamente top-secret. Ma il cd dove è stata salvata l’autobiografia non ha vita facile: rubato dalla moglie di Cox, la misurata Katie (Tilda Swinton), e dimenticato in palestra, finirà nelle mani di Chad Feldheimer (Brad Pitt), un cretino totale che mastica gomme, tracanna bibite energetiche e ha il cervello bruciato a forza di ascoltare l’IPod, e della sua collega Linda Litzke (Frances McDormand), frustrata donna di mezza età ossessionata dalla chirurgia estetica. La strana coppia vedrà nel cd un passepartout per estorcere denaro; risalendo al possessore del cd perduto, decidono di ricattarlo, dando il via ad una serie di intrighi paradossali in cui qualcuno ci rimetterà persino la vita...

Suo malgrado anche il sessuomane Harry Pfarrer (George Clooney), l’amante di Katie, moglie dell’agente CIA, si troverà coinvolto nel vortice di eventi scatenato dai due ingenui ricattatori. Ma il film oltre ad essere una spy story è una commedia, amara e divertente al contempo, che parla di persone nel mezzo di una crisi di mezza età sia personale che affettiva e professionale, il tutto intrecciato con questioni di sicurezza nazionale. L’umorismo dei Coen tocca le nevrosi e le problematiche dell’uomo, e della donna, di oggi: dall’ossessione per la linea e l’aspetto fisico, all’alcolismo, dalla fissazione per il denaro alla ricerca smaniosa di appuntamenti al buio con persone conosciute on line.

Esilarante la coppia Brad-George: il primo sfoggia il look degli esordi col ciuffone ossigenato alla Johnny Suede, si muove scatenato sul tapis roulant nella sua tuta ginnica rivelando doti comiche insospettate, il secondo, che sembra quasi fare simpaticamente il verso ad alcuni suoi personaggi, riesce ad essere “glamourous” anche con la barba di tre giorni, indossa i panni di un donnaiolo impenitente (camicia a quadretti e abito Brioni) che cerca sesso su Internet ed è fissato con il jogging. Straordinaria anche la McDormand che con Pitt forma una coppia davvero grandiosa. Senza remore, si presenta nuda nella prima scena del film, alla ricerca di qualcosa da “ritoccare”. Un clima familiare, quello di Burn after Reading, con attori che recitano personaggi creati su misura per loro e che sono amici anche fuori dal set, vagamente anni’60 con gli Spirit che cantano I Got a Line on You. E con quella ironia grottesca che ricalca parodisticamente modelli cinematografici consolidati e superati, e che ridicolizza certi adrenalinici action movie contemporanei. Se è vero che “squadra che vince non si cambia” è molto probabile allora che ben presto sul grande schermo ritroveremo l’intero “clan” all’opera per un nuovo film geniale e spassosamente intricato, da vedere e rivedere.

domenica 14 settembre 2008

La rinascita di Mickey


Mickey Rourke è il vincitore morale della 65esima Mostra del Cinema di Venezia. Il film Leone d’Oro, The Wrestling, di cui è protagonista ha segnato il suo ritorno sul grande schermo. Rapido sguardo ai film premiati e ai momenti più belli di questa edizione.
di Maria Cristina Locuratolo 14 settembre 2008 16:20

La 65esma edizione della Mostra Cinematografica di Venezia ha segnato il ritorno di un grande attore (anche se lui non ama definirlo così), vero trionfatore della kermesse di quest’anno, che di nome fa Mickey Rourke. Un lottatore sul viale del tramonto è il protagonista di The Wrestler di Darren Aronofsky, un film che rivolge uno sguardo amaro e nostalgico al mondo del wrestling, a tutti quegli “eroi” ormai senza speranza perchè vecchi, malati o destinati alla solitudine. Rourke si presenta sul red carpet vestito in modo discutibile, con sigaro in bocca e chihuahua in braccio tra le urla del pubblico che lo acclama. La sera della premiazione il Presidente della Giuria Wim Wenders annuncia commosso il Leone d’Oro dicendo “c’è un film con una performance che ci ha spezzato il cuore e quando pensi a qualcosa del genere pensi a Mickey Rourke”.

L’attore ha ringraziato e confortato la giuria dicendole simpaticamente di aver preso la decisione giusta. Il regista Aronofsky che due edizioni fa alla Mostra aveva deluso con The Fountain dedica la vittoria ai wrestlers, ai lottatori professionisti e ringrazia Rourke per aver aperto il proprio cuore alla cinepresa. Wenders fa capire con chiarezza che avrebbe assegnato al grande Mickey non solo il Leone d’Oro ma anche la Coppa Volpi per l’eccellente interpretazione andando contro il regolamento, premio che invece ha ricevuto Silvio Orlando per la sua performance nel film Il Papà di Giovanna di Pupi Avati. Premio Mastroianni per gli attori emergenti alla giovane e bella Jennifer Lowrence per la sua convincente interpretazione nel film di Arriaga, con Charlize Theron e Kim Basinger, The Burning Plain. E a proposito della conturbante Kim, si era favoleggiato un incontro a sorpresa tra lei e Mickey Rourke il giorno della premiazione, per riunire così la sexy coppia del film cult Nove Settimane e mezzo.

Il Premio De Laurentiis è andato ad un regista esordiente ormai sessantenne che ha intenerito il cuore di pubblico e giuria con il suo Pranzo di Ferragosto, pellicola che vede protagoniste delle vecchiette sulla ottantina ma che tuttavia porta un soffio di giovinezza e finezza di spirito. Alexey German jr, Leone d’Argento e Osella tecnica per il film Paper Soldier svela un retroscena interessante del suo lavoro, dichiarando di averlo realizzato con i soldi ricavati dalla vendita dell’appartamento di un suo caro amico, affermando così il valore delle piccole produzioni creative ed indipendenti, anni luce distanti dal sistema produttivo hollywoodiano. Delusione per Jonathan Demme ed il suo toccante Rachel Getting Married che vede fra gli interpreti una bravissima Anne Hathaway e l’indimenticata Debra Winger. Un intenso ritratto familiare, che ruota attorno a Kim, una ragazza con un passato di droga alle spalle che ritorna a casa per partecipare alle nozze della sorella maggiore Rachel e cerca di rimettere insieme i “pezzi” della sua vita interrotta e di riprendersi gli affetti dei familiari piazzandosi al centro della scena noncurante dell’imminente matrimonio. Per molti era uno dei migliori film in concorso.

In definitiva, di questa passata edizione della Mostra veneziana resteranno vivi nella memoria pochi momenti o immagini salienti: in primo luogo gli “aficionados” al Lido Brad e George e la loro esilarante spy-comedy firmata Coen, il Premio Oscar Charlize Theron che sfila con tutto il suo charme sul red carpet, l’irrequieta Natalie Portman che ruba la passerella ai protagonisti di BirdWatchers, Anne Hathaway passata dal modaiolo ruolo ne Il Diavolo veste Prada a quello drammatico e cupo di una "bad girl", il tenero Ponyo on the Cliff by the Sea creato dal genio di Miyazaki, il Leone alla Carriera consegnato da Celentano al maestro Olmi, e sopratutto il trionfo di Mickey Rourke, il campione, il combattente che sotto l’armatura è un essere fragile, un (anti)-eroe spericolato e controcorrente abituato a morire mille volte e a risorgere dalle proprie ceneri.

giovedì 4 settembre 2008

Venezia 65: "What else?"


Resoconto della prima parte della 65 Mostra del Cinema. Al Lido sono sbarcati Clooney e Pitt, padrini d’eccezione, l’incantevole Charlize Theron, la capricciosa Natalie Portman e alcuni divi nostrani come Isabella Ferrari, Francesca Neri e Valerio Mastandrea.
di Maria Cristina Locuratolo 4 settembre 2008 11:16

Cinema d’autore quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia, da Kitano al maestro dell’animazione giapponese Miyazaki, ai quattro italiani in concorso, compresi Avati ed Ozpetek.

Primo giorno: no George, no party. L’apertura è di lusso con il film evento dei premiatissimi fratelli Coen interpretato da due icone di bellezza e stile del cinema hollywoodiano: George Clooney e Brad Pitt. Sorridenti e scherzosi appaiono in conferenza stampa come sul red carpet, generosi con i fans firmano autografi e foto. Si distinguono per simpatia ed umanità testimoniata dalla cena di beneficienza tenutasi il 26 Agosto a favore del Darfur. Si concedono alla glamourousa passerella, irresistibili e complici, belli e forse non troppo impossibili. Il film Burn After Reading è una black comedy esilarante in cui Clooney e Pitt interpretano due perfetti idioti. Brad sfoggia un look simile a quello di inizio carriera in Johnny Suede, col ciuffo di capelli ossigenato, George è un dongiovanni impenitente con la testa vuota, la barba incolta, camicia a quadri e abito Brioni. Oltre che belli scopriamo nel film che sono più che mai bravi ed in perfetta sintonia. Nel cast altri nomi stellari come l’androgina Tilda Swinton e Frances McDorman, moglie di Joel Coen.

Secondo giorno: applausi per Kitano. Dopo il botto iniziale, troviamo il film in concorso di Takeshi Kitano Akires to Kame, capitolo conclusivo di una trilogia incentrata sull’autodistruzione dell’artista. L’alter ego stavolta è Machisu, un pittore senza successo profondamente convinto del valore della propria arte. I quadri del film sono in realtà del maestro Kitano che ha iniziato a dipingere dopo l’incidente in moto. Kitano, in conferenza stampa, rivela la sua abitudine a regalare le proprie tele agli amici perchè ritiene impossibile attribuire un valore economico ad un’opera d’arte. Il film in concorso Jerichow di Christian Petzold riprende i temi dell’onestà, dell’inganno e el tradimento. Evento collaterale è il documentario sulla vita del grande stilista Valentino: Valentino: The Last Emperor. Nella pellicola Matt Tyrnauer, l’inviato di Vanity Fair racconta da vicino gli ultimi due anni di carriera dello stilista alla guida della sua casa di moda, seguendo il backstage delle sfilate e la sua vita nel glamour dell’alta società nonchè i retroscena della sua relazione con Giancarlo Giammetti, compagno e partner d’affari da oltre cinquant’anni. Il film meno applaudito è stato finora quello di Abbass Kiarostami che torna al metalinguaggio mettendo in scena Shirin un poema persiano del XII secolo in chiave contemporanea attraverso i volti di 114 attrici iraniane e la diva Juliette Binoche spettattrici/attrici dello spettacolo in corso.

Terzo giorno: tutti pazzi per Charlize. Al Lido sbarca un’altra grande protagonista della scena internazionale, il Premio Oscar Charlize Theron. Appare in tutto il suo splendore al fianco del regista Guillermo Arriaga per presentare The Burning Plain, film che racconta la storia di cinque personaggi che vivono in luoghi differenti tra Messico e Stati Uniti e che si sviluppa su diversi piani temporali anche se le storie si intrecciano totalmente. Coprotagonista insieme a Charlize è l’assente Kim Basinger di cui l’attrice elogia l’interpretazione in conferenza stampa. Inju la bete dans l’ombre di Barbet Schroeder è un film a metà tra realtà e finzione, che ci mostra un mondo perverso e misterioso mentre appare un pò pasticciato Dangouk (The Plastic City) di Yu Lik Wai, la storia di un "gangster" che si ritiene ancora un sognatore.

Quarto giorno: Ozpetek non convince. Il primo titolo italiano in concorso è Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, film dai toni noir tratto dal romanzo di Melania Mazzucco che parla del trauma del distacco vissuto da un uomo separatosi dalla moglie. La pellicola in sala delude forse perchè la trasposizione cinematografica del testo letterario diventa nel finale troppo "didascalica". Isabella Ferrari e Valerio Mastandrea, entrambi protagonisti del film, appaiono al loro meglio e perfettamente calati nel ruolo che interpretano oltre che compiaciuti di aver messo in scena una passione estrema e il dolore di un amore malandato. Ponyo on the Cliff Sea è un film d’animazione del maestro giapponese Miyazaki e narra l’incantevole storia di Ponyo, la principessa dei pesci rossi che vuole diventare un essere umano, una tenera "Sirenetta" nipponica che risveglia il lato più infantile e disincantato di ognuno di noi.

Quinto giorno: Avati commuove, Naderi stupisce. Il Papà di Giovanna di Pupi Avati è il secondo film italiano in concorso; un dramma familiare in cui Silvio Orlando è il padre di una ragazza con problemi mentali che si rifiuta di accettare la realtà e cerca in tutti i modi di proteggere la figlia rendendola ancora più fragile. Amore paterno e follia, una madre terribile che fugge dal marito e dalla figlia interpretata da Francesca Neri, ed un ispettore che, suo malgrado,va a sbattere contro questa storia drammatica interpretato da un serissimo Ezio Greggio. In concorso anche il film di Amir Naderi, Vegas: based on a true story. Un’opera realizzata con pochi mezzi e digitale che mostra i colori, le luci, i neon, la gente di Las Vegas e racconta la distruzione di un nucleo familiare a causa di un presunto ma inesistente tesoro nascosto sotto il giardino ben curato davanti la casa dei signori Parker, gente qualunque che cerca di sbarcare il lunario. L’Autre di Patrick Bernard e Pierre Trividic è la storia di una separazione fin troppo facile che si complica quando uno dei due ex inizia a frequentare un’altra donna e Milk è una pellicola di Semih Kaplanoglu in cui Yusuf , un giovane turco che scrive poesie e vende latte finirà per arruolarsi.

Quinto giorno: passerella inattesa della Portman. Protagonisti della giornata Marco Bechis con il suo Birdwatchers-La terra degli uomini rossi e l’esordiente regista e affermata attrice Natalie Portman che, a sorpresa, ruba la scena sul red carpet al cast italiano del film in concorso, imbarazzando cameramen e fotografi che infatti hanno subito focalizzato la loro attenzione sulla talentuosa star. La Portman è sbarcata al Lido per presentare il corto da lei girato Eve, che inaugura la rassegna Corto Cortissimo. Il film di Bechis si sofferma sulla disperata situazione degli indios Guarani-Kaiowà, diventati attori per il cineasta italo cileno e presenti insieme a Claudio Santamaria e Chiara Caselli durante la conferenza stampa.

Sesto giorno: tre film in concorso. Un paese immaginario in piena guerra civile e segnato dalla dittatura, un gruppo di persone tenta di sopravvivere combattendo, e poi di fuggire: accolta con qualche fischio la proiezione di Nuit de Chien di Werner Schroeder. Molta curiosità per gli altri due film in concorso Papier Soldier di Aleksey German e per la pellicola africana Teza di Hailer Gerima. Qualcuno dice che dopo George e Brad la Mostra è decisamente sottotono, lo penso anche io ma speriamo di poter continuare a sognare con del buon cinema nei prossimi giorni veneziani.

giovedì 28 agosto 2008

Dante Ferretti: un artista al di fuori di ogni cliché


Tre leoni alati in volo verso il futuro è l’idea da cui lo scenografo italiano, molto amato ad Hollywood, parte per rappresentare la 65. Mostra Internazionale Cinematografica ed inaugurare il nuovo Palazzo del Cinema.
di Maria Cristina Locuratolo 28 agosto 2008 19:56

La 65. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si presenta in grande stile con una scenografia reinventata dall’artista italiano, ben due volte Premio Oscar, Dante Ferretti. Tre leoni alati sembrano uscire dalla parete per prendere vita e spiccare il volo verso il nuovo Palazzo del Cinema che verrà inaugurato quest’anno. In primo piano si erge un maestoso leone dorato, alto ben 5 metri, emblema storico della Mostra, che squarcia lo schermo bianco davanti alla vecchia facciata e guida altri due leoni d’oro, che metaforicamente rappresentano le edizioni future della Mostra, verso l’area dove sorgerà il nuovo Palazzo del Cinema. Ferretti prosegue così il suo coerente discorso artistico, iniziato nel 2004 con la spettacolare realizzazione dei celebri sessanta leoni d’oro. Nel 2007 una grande “sfera felliniana” aveva abbattuto lo storico Palazzo, quest’anno rinnovato per l’occasione, che come di consueto fa da sfondo al red carpet su cui sfilano celebrità provenienti da tutto il mondo. Per questa edizione 2008, l’artista marchigiano predilige nuovamente il leone, secolare emblema della città veneziana, della sua antica Repubblica, ed attuale simbolo del suo Comune e della sua Provincia nonché della famosa kermesse cinematografica.

Dante Ferretti, due Oscar per The Aviator di Martin Scorsese nel 2005 e Sweeney Todd di Tim Burton nel 2008 più ben otto nominations, inizia la sua carriera nel mondo del cinema, dopo aver conseguito il diploma all’Accademia delle Belle Arti, come assistente nel film Il Vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e con lo stesso regista esordisce come scenografo nel 1969 in Medea. Il sodalizio artistico tra Ferretti e Pasolini dura per molti anni, e comprende varie opere, da Il Decameron nel 1971 e i Racconti di Canterbury nell’anno seguente fino a Il fiore delle mille e una notte nel 1974 e a Salò o le 120 giornate di Sodoma nel 1975. Lo scenografo collabora con numerosi registi italiani quali Elio Petri, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Luigi Comencini. Dal 1979 inizia ad interpretare con la sua arte le visioni di Fellini, fornendo un contributo alla creazione del suo mondo onirico, totalmente opposto a quello realista di Pasolini. Con Fellini Ferretti lavora per Prova d’orchestra nel 1979, La città delle donne nel 1980, E la nave va nel 1983, Ginger e Fred nel 1986 e La voce della luna nel 1990. La prima prova internazionale per lo scenografo italiano è col film Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud nel 1986. Negli anni seguenti ottiene due nominations all’Oscar, insieme alla moglie e sua abituale collaboratrice Francesca Lo Schiavo, per il suo lavoro nel film Il Barone di Munchausen di Terry Gilliam e nell’Amleto di Franco Zeffirelli.

Il debutto ad Hollywood è con Martin Scorsese, conosciuto a Cinecittà sul set di un film di Fellini, con cui sviluppa la collaborazione più intensa e duratura, da L’età dell’innocenza nel 1993 a Casinò nel 1995 e Kundun nel 1997 fino a Gangs of New York nel 2000 e The Aviator nel 2005 grazie al quale conquista, insieme alla moglie, il suo primo Oscar. Nel 2004 partecipa ad un’altra grande produzione americana, Ritorno a Cold Mountain del compianto Anthony Minghella. Ferretti si impone ad Hollywood come maestro della ricostruzione d’epoca fuori dai cliché, evitando le trappole delle convenzioni e della ripetività. Basti pensare al film Gangs of New York, in cui lo scenografo ricostruisce una New York di fine ’800 nei teatri di posa di Cinecittà o all’atmosfera cupa e suggestiva della Londra del XIX secolo di Sweeney Todd. Nel 2005 l’artista collabora con Brian De Palma per il film d’apertura della 63. Mostra veneziana e nel 2008, sempre insieme a Francesca Lo Schiavo, riceve per la seconda volta l’ambita statuetta d’oro per le scenografie di Sweeney Todd- The Demon Barber of Fleet Street del Leone d’Oro alla Carriera 2007 Tim Burton.

ll lavoro di Ferretti ci dimostra che la scenografia in un film non è solo funzionale alla trama o agli attori né serve solo per dare una collocazione geografica e temporale alla storia e ai personaggi ma è parte integrante del film, è anch’essa un personaggio o si configura come una sorta di emanazione esteriore della personalità del protagonista o come un suo prolungamento. Creatività, raffinatezza, attenzione e cura per i particolari sono i punti di forza di Ferretti; lo stesso Scorsese parlando di lui ha detto “Ferretti viene da una tradizione che gli permette di fondere una grande immaginazione con l’attenzione per i dettagli d’epoca che fungono da commento al tema del film”. Sono proprio quei dettagli che creano quell’ “altrove impalpabile” in cui una storia prende vita e lo spazio dell’immaginazione diventa reale.

martedì 5 agosto 2008

Venezia 65: una mostra da leoni (d’oro)


Il presidente della mostra cinematografica veneziana, Marco Muller, ha presentato il programma del Festival che aprirà i battenti il 27 agosto. Anteprime mondiali ed internazionali, retrospettive sul cinema del passato e grandi ospiti per celebrare la settima arte.
di Maria Cristina Locuratolo 5 agosto 2008 22:03

“Un cinema contraddittorio e pluralistico”, è quello che Marco Müller ci propone in questa 65esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Una serie di scelte variegate che puntano tanto alla qualità quanto alla non identità dei fenomeni espressivi; un cinema che si configura come luogo di ricche individualità, terreno non di scontro ma di confronto, che guarda a mondi a noi più lontani (il Sud, l’Oriente) e rappresenta quelli a noi più vicini (l’Occidente, il Nord).

Ricchissimo il programma anche in termini quantitativi: 49 lungometraggi e 3 cortometraggi in prima mondiale, 5 lungometraggi in prima internazionale, 21 i film in Concorso, 7 Fuori Concorso più quattro riproposte, 18 pellicole per la sezione Orizzonti e 2 film a sorpresa. L’italia sarà rappresentata da ben quattro film in Concorso: Il papà di Giovanna di Pupi Avati con Silvio Orlando, Alba Rohrwacher e Francesca Neri, BirdWatchers di Marco Bechis con Claudio Santamaria e Chiara Caselli, Il seme della discordia di Pappi Corsicato con Caterina Murino, Alessandro Gassman, Martina Stella e Isabella Ferrari, Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetech con Valerio Mastrandrea, Nicole Grimaudo e Stefania Sandrelli. Come di consueto sul red carpet non mancherà la parata di stelle hollywoodiane: il Festival sarà inaugurato dal film Fuori Concorso Burn After Reading dei fratelli Coen in cui recitano George Clooney e Brad Pitt, attesissimi al Lido, insieme a Tilda Swinton e John Malkovich.

Gli Stati Uniti saranno inoltre rappresentati da The Wrestler (in Concorso) di Darren Aronosky con Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood; The Burning Plain (in Concorso) di Guillermo Arriaga con Charlize Theron, Kim Basinger, Joaquim de Almeida; Hurt Locker(in Concorso) di Kathryn Bigelow con Ralph Fiennes, Guy Pearce, David Morse, Jeremy Renner; Rachel Getting Married (in Concorso) di Jonathan Demme con Anne Hathaway, Debra Winger, Rosemarie Dewitt, Bill Irwin, Tunde Adebimpe; Vegas: Based on a True Story(in Concorso) di Amir Naderi con Mark Greenfield, Nancy La Scala, Zach Thomas; Goodbye Solo (Orizzonti) di Ramin Bahrani con Soulemayne Sy Savane, Red West, Diana Franco Galindo; In Paraguay(Orizzonti) documentario di Ross McElwee; Below Sea Level, (Orizzonti) documentario di Gianfranco Rosi; Valentino: The Last Emperor, (Orizzonti Eventi) documentario di Matt Tyrnauer con Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti.

Presenti in Concorso anche due film di animazione “made in Japan” segnalati da Muller come proposte interessanti in quanto sottolineano la varietà di contenuti e forme espressive della Mostra: Gake no ue no Ponyo (Ponyo on Cliff by the Sea) del regista Hayao Miyazaki e The Sky Crawlers di Oshii Mamoru. Per quanto riguarda le riproposte ed i restauri quest’anno la retrospettiva sarà dedicata a Questi fantasmi: Cinema italiano ritrovato (1946-1975) a cura di Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti. La rassegna prevede la proiezione di una trentina di opere del trentennio più fiammeggiante della storia del nostro cinema, mostrandoci le storie e le cronache di un’Italia in pieno mutamento, dal dopoguerra al boom economico, alle contraddizioni sociali dello sviluppo.

Altro sguardo nostalgico all’Italia che fu nella sezione Fuori Concorso con pellicole come Nel blu dipinto di blu di Piero Tellini, film del lontano 1959 con Domenico Modugno e Vittorio De Sica. Il Leone d’Oro alla Carriera vede protagonista Ermanno Olmi, il regista bergamasco che ha segnato profondamente l’invenzione del cinema moderno, già vincitore di un Leone d’Argento nel 1987 con Lunga vita alla signora, e di un Leone d’Oro nel 1988 con La leggenda del santo bevitore. Il premio sarà consegnato ad Olmi il 5 settembre da Adriano Celentano. In primo piano nella sezione Orizzonti il tema delle morti bianche: ben due lungometraggi dedicati alla tragedia della Thyssenkrup di Torino, dove l’incendio scoppiato tra il 5 ed il 6 dicembre 2007 uccise sette operai. Thyssenkrup Blues di Pietro Balla e Monica Repetto, pellicola Fuori Concorso, e La fabbrica dei tedeschi, docu-fiction in Concorso di Mimmo Calopresti. Il raggelante tema della morte sul lavoro è ben rappresentato anche dal film restaurato Yuppi Du di Adriano Celentano in cui un operaio muore travolto da un’enorme cassa sganciatosi da una gru a Porto Marghera.

Come è facile notare dalle tematiche e dagli autori presenti al festival, il programma della 65esima edizione della Mostra veneziana segue traiettorie diverse, si rivolge ad un pubblico vario, esprime la libertà narrativa e stilistica, sfida il comune senso del reale. L’unico fil rouge che funge da collante alle varie opere è la verità profonda insita in esse, un’autenticità che è possibile perseguire solo tramite il confronto e la contraddizione.

mercoledì 16 luglio 2008

Auguri, mamma Nicole!


Lieto evento per l’attrice australiana che lo scorso 7 luglio ha dato alla luce la piccola Sunday Rose, nata dall’unione con il cantante country Keith Urban. Breve ritratto della star più luminosa del firmamento hollywoodiano.
di Maria Cristina Locuratolo 16 luglio 2008 12:30

Nicole Kidman è diventata mamma. La piccola Sunday Rose, questo il nome della bambina, è nata nelle prime ore di lunedì 7 luglio, nell’ospedale di Nashville, nel Tennessee, dove l’attrice australiana si è trasferita col marito Keith Urban da qualche tempo per fuggire dal caos di Los Angeles. Per la Kidman si tratta del primo parto biologico: i figli Isabella, 15 anni, e Connor 13, sono stati adottati durante il matrimonio con Tom Cruise. Il nome della piccola è ispirato ad una mecenate d’arte australiana, Sunday Reed, nota per la sua vita sentimentale movimentata. Alcune fonti rivelano che prima della nascita della piccola, Keith ha scritto un canzone dal titolo “Sunday”, altre affermano maliziosamente, che il nome della bimba sia stato scelto da Nicole per ribadire la sua avversione nei confronti di Scientology, di cui era seguace ai tempi del matrimonio con Cruise. Sunday, infatti è un nome che fa riferimento alla Domenica, che per i cattolici è “il giorno del Signore”. Ma sono solo supposizioni.

La Kidman si preparava da giorni al lieto evento. Per rilassarsi prima del parto aveva addirittura creato, insieme al marito, una compilation di musica soft con brani di Prokofiev, James Galway, e la musica country dello stesso Keith Urban. La primogenita arriva qualche giorno dopo il secondo anniversario di nozze della coppia come coronamento di un’unione consolidata ma anche come concretizzazione di un desiderio profondo di Nicole che, durante il matrimonio con Cruise, aveva perso un figlio vedendo così infranto il suo sogno di diventare mamma. Così l’ultima delle dive realizza a 41 anni la sua aspirazione più intima e più grande. Nicole appare ancora più bella e luminosa, ora che è al culmine della sua vita professionale e privata. A guardala ci si domanda se è umana o è una dea scesa da quello scintillante Olimpo moderno chiamato Hollywood. L’abbiamo vista fiorire film dopo film; la sua carriera è costellata di pellicole importanti girate da veri maestri della Settima Arte.

Kubrick l’ha scelta per il suo capolavoro postumo Eyes Wide Shut, dove per l’ultima volta insieme al marito Tom Cruise ha dato vita ad un inferno esistenziale e sessuale sospeso tra il sogno e la realtà. Luhrmann l’ha resa la stella del Moulin Rouge, un mondo visionario ed eccentrico in cui il confine tra spettacolo e vita si assottiglia fino a diventare invisibile, mentre Lars von Trier la vuole vittima inerme e poi carnefice spietata nel suo Dogville. E ancora Gus Van Sant, Minghella, Oz, Pollack, Nora Ephron, Amenabar, Daldry hanno fatto di lei strumento della propria arte, espressione della loro personale poetica. Certo ne ha fatta di strada da quando nell’83 esordì col film tv Skin Deep di Mark Joffe e Chris Langman e dal film girato da Sergio Martino in Italia dove veste i panni di Un’australiana a Roma al fianco di Massimo Ciavarro. Nicole è talento allo stato puro, sì talento e passione per un mestiere che è una vocazione. I suoi personaggi vibrano, li senti mentre prendono vita al buio di una sala cinematografica.

Così vediamo Satine danzare con la sua figura esile e sublime in uno sfavillante Moulin Rouge, Grace immolarsi per poi giustiziare l’umanità, Ada che, con la sua grazia di altri tempi, ci insegna cos’è l’amore, un’enigmatica quanto pericolosa ragazza russa che di mestiere fa la “birthday girl”, un fantasma che nasconde un terribile segreto di morte e follia, una moglie in crisi con l’uomo che ama per un tradimento mai avvenuto, una straordinaria scrittrice di nome Virginia Woolf che vale un meritato Oscar...E potremmo continuare all’infinito. Nicole non si risparmia mai, neanche quando recita lo spot di un profumo o di una tv satellitare. Sintetizza in sé i più disparati ideali e modelli femminili: dall’aristocratica settecentesca alla lady romantica dell’Ottocento, alla borghese vanesia dei nostri giorni fino alla strega moderna o alla donna-robot di un ipotetico e non auspicabile futuro. Viene da chiedersi se questa donna dal fascino remoto e dallo sguardo algido, ma nel contempo amorevole, esiste davvero o è anch’essa, come i suoi personaggi, una creatura incantevole generata da un fascio di luce perso nel tempo della proiezione cinematografica.

mercoledì 25 giugno 2008

Un uomo normale dal talento straordinario


Salito alla ribalta negli anni Novanta con le commedie sentimentali, Tom Hanks miete successi da oltre vent’anni interpretando personaggi ricchi di fragilità ed umanità che hanno segnato la storia del cinema e appassionato il pubblico di tutto il mondo. Profilo di uno dei più grandi talenti di Hollywood.
di Maria Cristina Locuratolo 25 giugno 2008 13:50

Tom Hanks è ben lontano dall’essere l’attore tutto "frizzi e lazzi" made in USA. Sembra più uscito da una puntata di Happy Days che dagli studios hollywoodiani. E in effetti è proprio in quel telefilm che comparirà nel 1982 ignaro della brillante lunga carriera che da lì avrebbe intrapreso. Hanks non ha il fascino glamour di George Clooney, né il magnetismo di Johnny Depp e neanche la bellezza disarmante di Brad Pitt. Classe 1956, lontano discendente di Abramo Lincoln, Tom incarna il prototipo dell’americano medio: ha la faccia da bravo ragazzo, i modi gentili e mai sopra le righe, il fisico da impiegato, come lui stesso dichiara, ed un talento fuori dal comune. Il suo successo dura da più di vent’anni: inizia negli anni Novanta con le commedie romantiche Joe contro il vulcano, Insonnia d’amore, e C’è Post@ per te in cui fa coppia fissa con Meg Ryan e raggiunge il suo culmine con il ruolo complesso dell’avvocato gay ammalato di AIDS nel film Philadelphia di Jonathan Demme che consacra definitivamente Hanks nuova star del firmamento hollywoodiano. E’ infatti quell’interpretazione che varrà all’attore il primo Oscar, nonché un Golden Globe, un Orso d’Argento a Berlino e un MTV Awards.

Ma la seconda statuetta d’oro non si fa certo attendere. L’anno successivo Hanks regala a pubblico e critica un’altra interpretazione passata alla storia, quella di Forrest Gump, "un idiota di genio" che passa in rassegna trent’anni di mirabili avventure personali, tra ascese e cadute, restituendoci col suo sguardo sempre limpido e sincero piccoli frammenti di storia a stelle e strisce. Si parla ancora di America nel thriller spaziale Apollo13 di Ron Howard, dove Hanks è un’astronauta statunitense che, insieme ad altri suoi due colleghi, vede svanire il sogno di raggiungere la luna a causa di un guasto tecnico dell’astronave che dà il nome al film. Altro regista importante nella carriera dell’attore oltre a Howard è Steven Spielberg, il quale sceglie Hanks per il ruolo del capitano Miller nel film bellico Salvate il soldato Ryan, interpretazione che porta Tom vicino alla terza statuetta. Tematiche sempre più scottanti dal forte appeal cinematografico caratterizzano altri lavori di Hanks: Il Miglio Verde, soggetto di Stephen King, parla della pena di morte e lo fa in modo appassionato e appassionante. Tom Hanks lavora in un carcere, è il capo dei secondini, rivive nella sua memoria la storia di un uomo di colore ingiustamente condannato che ha dei poteri sovrannaturali attraverso i quali riesce a guarirlo e a riportare persino alla vita un morto.

Nel 2000 arriva per Hank forse la sua prova d’attore più ardua. In Cast Away veste i panni di un naufrago sopravvissuto ad una sciagura aerea che vive per anni su un’isola deserta in attesa di trovare un modo per tornare a casa. Per esigenze di copione Tom dimagrisce oltre venti chili; la sua interpretazione è perfetta, il film è un vero e proprio "one man show", il nucleo della narrazione è incentrata quasi esclusivamente sul protagonista che tenta disperatamente di restare aggrappato alla vita anche nelle situazioni più estreme. Nel 2001 la premiata ditta Spielberg-Hanks porta sul grande schermo Prova a prendermi con Leonardo Di Caprio come protagonista e nel 2004 è la volta di The Terminal in cui Tom si cimenta in un altro ruolo "sui generis": un emigrato dell’est che resta intrappolato in un aeroporto e inizia una nuova vita in questo "non luogo" spielberghiano affidandosi alla propria creatività e alla buona sorte.

La nuova svolta per la carriera di Tom Hanks arriva con la pellicola dell’amico Howard, Il Codice Da Vinci, film tratto dal discusso best-sellers di Dan Brown. La pellicola è al centro di numerose polemiche e non perché sia un lavoro di notevole fattura o particolarmente ben interpretato, ma perché solleva questioni che sconvolgono la Chiesa e ai suoi fondamenti. Nonostante le dichiarazioni rilasciate, Tom decide di girare il prequel-sequel del film tratto dal romanzo omonimo di Brown, Angeli e Demoni, in cambio di una cifra stratosferica. Gli esterni sono stati girati giorni fa a Roma tra Piazza Navona e il Pantheon. mentre è stata negato l’accesso al Vaticano e a Castel Sant’Angelo, in quanto, secondo la Diocesi di Roma, il film, pur essendo un’opera di fantasia lede il sentimento religioso.

A parte le pellicole di Howard, in cui Hanks sacrifica il suo talento per film di puro intrattenimento, gli ultimi lavori dell’attore lo vedono dapprima impegnato accanto a Julia Roberts ne La guerra di Charlie Wilson e successivamente al fianco di John Malkovich in The Great Buck Howard. Analizzando i momenti salienti della carriera di Tom Hanks, questo “E.T. Col barlume di Einstein”, come la critica lo ha definito, notiamo come le sue interpretazioni versatili e ricche di pathos vadano a scrutare nell’animo umano, nella vita dell’uomo comune che resta ancorato a quei valori forti e saldi a cui l’America inneggia e che spesso tradisce. Il suo sguardo è, come quello del suo personaggio più emblematico, Forrest Gump, semplice e puro e si fa specchio di realtà e condizioni esistenziali difficili, estreme o coraggiose in cui il debole, l’emarginato, il sopravvissuto diventano gli eroi di tutti i giorni, dei nostri giorni.

domenica 1 giugno 2008

"Wanted-Scegli il tuo destino": Angelina spietata più che mai


Uscirà a Luglio nelle sale il nuovo film della Jolie. L’attrice sarà la fascinosa eroina di una misteriosa Confraternita. Un action movie a metà tra thriller e fantasy che ha provocato numerose polemiche per le scene ad alto tasso di violenza ed erotismo.
di Maria Cristina Locuratolo 1 giugno 2008 20:10

Angelina Jolie torna a sorpresa con un nuovo action movie: “Wanted-Scegli il tuo destino” dopo Mr. e Mrs. Smith al fianco del marito Brad Pitt e l’interpretazione della cybereroina Lara Croft che l’ha consacrata come la diva più sexy del mondo. Strana e criticabile scelta, quella di Angelina,che nel suo ultimo lavoro “A Mighty Heart” aveva vestito i panni di Marianne Pearl, giornalista francese moglie di un inviato del Wall Street Journal, sequestrato e ucciso dai terroristi in Pakistan nel 2002. Una donna impegnata socialmente e dai grandi ideali come la star americana ora ritorna ad impugnare armi e spargere sangue in un ruolo “politicamente scorretto” già preso di mira dai pacifisti. La Jolie impersonerà Fox, la diabolica e conturbante leader di una Confraternita che uccide per vendicare omicidi. La “fratellanza” è una sorta di setta massonica, un’alleanza di giustizieri che considerano le armi del Fato in grado di controllare e determinare le vite dei comuni mortali.

"Wanted-Scegli il tuo destino": cast stellare La pellicola è diretta dal regista russo Timur Bekmambetov, che può essere considerato l’alter ego di Spielberg, ed è tratta da una graphic novel di Mark Miller e J.G. Jones. Come è successo con Lara Croft, centrale in questo film è il ruolo del corpo della protagonista: sensuale e tatuato, agile e capace di ogni prodezza. Accanto alla bellissima attrice vedremo James McAvoy, che il pubblico ha amato in “Espiazione” e ne “L’ultimo re di Scozia”; in “Wanted” interpreterà il timido antieroe Wesley che verrà reso consapevole del proprio destino e dei propri poteri grazie alla misteriosa Fox che sarà per lui una sorta di Indiana Jones tutta al femminile.
Un altro grande nome compare nel cast, quello di Morgan Freeman, che sarà a capo dell’enigmatica Confraternita di cui Angelina è la spietata eroina.

Non solo action movie Ma “Wanted “non è solo azione, adrenalina pura, è un film che parla della responsabilità e dell’irresponsabilità di chi uccide, che esplora la zona d’ombra tra l’eroismo e la vendetta ed individua le possibilità di ogni individuo di cambiare il proprio destino. Le prime immagini disponibili del film mostrano la Jolie sul cofano di una Dodge Viper rosso fuoco che spara all’impazzata. Di nuovo, erotismo e morte formano un binomio perfetto; l’immagine della protagonista esprime bellezza e desiderio ma la sua perfidia genera violenza e distruzione. La Universal si sta battendo per non avere il visto Restricted sulla pellicola che a quanto pare contiene non poche scene come questa.

Una nuova eroina. Angelina è ben conscia delle scelte che compie; un film d’azione non intaccherà il suo impegno sociale né condizionerà la stima che il grande pubblico ha imparato ad avere nei suoi confronti. Piuttosto la diva si ritaglierà un altro posto nell’immaginario collettivo dopo Lara Croft dando vita ad una nuova eroina sulla scia di Uma Thurman in “Kill Bill” o Carrie-Anne Moss in "Matrix”. “Wanted” ha un aspetto meno “americano” di altre pellicole del genere; la sceneggiatura è tipica dei film d’azione statunitensi intervallata da alcune scene “bollenti” tra i due protagonisti ma si muove in una direzione opposta rispetto a film come “Spiderman”. Se infatti per quest’ultimo “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” per Fox-Jolie il potere diviene un mezzo per intraprendere un cammino oscuro. Il regista russo Bekmambetov ha portato al copione la sua follia dell’Europa dell’Est restando così più fedele allo script originale. Gli ingredienti per il successo ci sono tutti, comprese le spettacolari riprese tra Chicago, Repubblica Ceca ed Ungheria, ma il punto di forza resta senza dubbio lei, Angelina, eroina incontrastata sul grande schermo e nella vita.

sabato 17 maggio 2008

"Notte brava a Las Vegas": Cameron e Ashton fortunati al gioco come in amore


Il regista Tom Vaughan sceglie la città trasgressiva del Nevada come sfondo per una storia d’amore (e di odio) dalla posta in gioco di tre milioni di dollari.
di Maria Cristina Locuratolo 17 maggio 2008 11:59

Joy (Cameron Diaz) e Jack (Ashton Kutcher) sono due perfetti estranei che hanno caratteri opposti: lei è una broker in carriera, perfezionista e preoccupata sempre di compiacere il prossimo, lui un bambinone che non è in grado di tenersi né una relazione né un lavoro. Entrambi vivono a New York e decidono di rifugiarsi a Las Vegas per qualche giorno per distrarsi e consolarsi dato che ambedue sono stati scaricati. Lei dal fidanzato che stava per sposare, lui dal padre che lo ha licenziato. Afflitti e con la voglia di divertirsi si danno ad una notte senza freni nella città degli eccessi. La serata inizia al tavolo da gioco e prosegue tra champagne, superalcolici e balli scatenati. Termina la mattina seguente, quando scemati i fumi dell’alcool Joy si accorge di essere nel letto di Jack con una fede al dito.

Matrimonio a Las vegas Tra i bagordi e l’euforia notturna infatti è stato pure celebrato il loro matrimonio. E’ vero, “quello che succede a Las Vegas resta a Las Vegas” e un matrimonio “lampo” può facilmente risolversi con un divorzio “lampo”. Ma il destino ci mette lo zampino e complica le cose con una slot machine che fa vincere a Jack ben tre milioni di dollari grazie a Joy che gli ha prestato il suo quarto di dollaro fortunato. Tornati a New York i due novelli sposi milionari si presentano in tribunale per ottenere il divorzio e la ripartizione della vincita, sulla quale entrambi avanzano diritti. Ma un giudice inflessibile che crede nel valore del matrimonio condanna la coppia a sei mesi di dura convivenza in cui si impegneranno a far funzionare la relazione con l’aiuto di una psicoterapeuta, pena il congelamento della vincita ottenuta alla slot machine.

Una commedia romantica "American Style" Notte brava a Las Vegas è una commedia spumeggiante che trasforma una convivenza forzata in una vera e propria guerra senza esclusione di colpi. E questo non solo per l’inevitabile confronto uomo/donna che è già difficile da sostenere quando c’è un sentimento di mezzo ma anche perchè i due protagonisti hanno più che un problema da risolvere con loro stessi. Joy è bloccata emotivamente, non riesce a lasciarsi andare, programma metodica ogni singola azione della giornata, continua a tenere un lavoro che non le piace in cui tuttavia è brillante e porta al dito l’anello del suo ex-fidanzato con il quale non è mai stata felice ma che ha sempre cercato di compiacere perchè non si sentiva all’altezza. Jack è l’eterno Peter Pan, un disordinato cronico nella vita come negli affetti, non riesce a portare a termine un progetto o un rapporto con una donna ma lascia tutto a metà per paura di mettersi in gioco fino in fondo. Tra gag e scene esilaranti il film affronta una delle sfide più difficili del nostro tempo cioè quella di far funzionare una relazione, superando i limiti individuali, educandoci alla tolleranza, al rispetto e al sentimento.

Diaz e Kutcher, perdenti ma vincenti L’energia e la forza espressiva della Diaz travolgono nuovamente lo spettatore ed è senz’altro la sua verve incontenibile a rendere il film frizzante e a trasmettere sul grande schermo la giusta sensazione al momento giusto. Ashton e Cameron sono divertenti e ben assortiti ed in più riescono a dare uno spessore ai loro personaggi, rendendo “Notte brava a Las Vegas” una commedia intelligente che parla di tutto ciò che appartiene alle giovani generazioni odierne: divertimento, leggerezza ma anche paura d’amare, di essere se stessi, di crescere ed affrontare il futuro. Le differenze, le resistenze personali e la reciproca avversione tra i due coniugi vengono esasperate e portate al limite nell’appartamento che saranno costretti a condividere fino a tradursi in un gioco d’amore che li costringe ad essere senza maschere, agguerriti più che mai. E per questo vincenti, in amore come al Jackpot.

domenica 4 maggio 2008

In amore niente regole: glamour e romanticismo per il "bad boy" Clooney


Terza prova dietro la macchina da presa per George Clooney che delizia il suo pubblico con una commedia brillante, nostalgica e a tratti esilarante. Protagonista una Renée Zellweger nei panni di una donna controcorrente che lotta per la libertà d’espressione.

di Maria Cristina Locuratolo 4 maggio 2008 18:43

Con "In amore niente regole", storia ambientata nella Carolina degli anni ’20, Clooney strizza l’occhio, divertito e nostalgico, alla commedia sofisticata della Golden Age hollywoodiana. Come spesso accade, il titolo originale - che in questo caso è "Leatherheads", letteralmente "teste di cuoio", in riferimento al casco usato dai giocatori di football - si addice molto di più al film che, più che alle regole d’amore, allude alle regole del gioco. Il gioco del football, rude e fangoso, che spesso esce da ogni schema e per questo appare "sporco" ma senza dubbio più appassionato e divertente, e quello pericoloso e sottile della verità che tenta faticosamente di sostituirsi all’inganno.

George veste bene i panni dell’eroe sportivo Dodge Connoly, sleale in campo e simpatica canaglia in amore; il suo fascino resta immutato anche quando indossa il baschetto e si rotola nel fango o si butta ubriaco nelle risse tra giocatori nei bar di terz’ordine. Clooney ripercorre la storia del football dagli esordi, quando era ancora "senza regole" e assomigliava più ad una guerra che ad uno sport alla nascita del gioco professionistico con tanto di rigide norme comportamentali e commissario burbero che si impegna a farle osservare, cachet da capogiro, interessi commerciali più che sportivi.

Il triangolo sentimentale che coinvolge Lexie Littleton (Renée Zellweger), giornalista alle prese con un mondo maschile corrotto, Dodge, il protagonista, e il giocatore di football Carter Rutherford (John Krakinski) creduto immeritatamente un eroe di guerra, in realtà è solo un pretesto per affrontare il tema della libertà d’espressione. La bionda Lexie-Zellweger che ricorda la Roxie del pluripremiato “Chicago”, con la sua bellezza retrò è perfetta nel ruolo di una donna degli Anni ’20, indossa con stile deliziosi cappottini rossi e cappelli con le piume di fagiano, si muove sinuosa negli eleganti vestiti d’epoca attirando gli sguardi di chi la circonda; il suo è un personaggio chiave perchè non solo rappresenta la "voce della coscienza" di un’America che troppo facilmente crea falsi miti e rimpiazza la verità con la menzogna, ma è anche l’incarnazione di una donna nuova, che cerca il proprio posto nel mondo, svincolandosi dai ruoli stereotipati di moglie e madre, battendosi contro il pregiudizio maschile e a favore della libertà intesa anche come ricerca della verità.

Il regista Clooney dimostra di essere un esperto conoscitore dei modelli e dei meccanismi narrativi del grande cinema americano del passato, dirigendo con maestria le schermaglie amorose di Dodge e Lexie basate su dialoghi brillanti intrisi di humour raffinato e sguardi complici. George si rifà ai grandi classici e alle grandi star: getta uno sguardo a pellicole come "Scandalo a Filadelfia", in cui una donna è contesa tra due uomini, e "La Signora del Venerdì" dove c’è una cronista di talento ex moglie del direttore, riprendendone atmosfere e suggestioni e si ispira ad attori come Cary Grant e Clark Gable per il suo personaggio, e a dive quali Katharine Hepburn, Miriam Hopkins e Rosalind Russell per il ruolo della Zellweger.

Forse la storia può apparire forzata, costruita, artefatta, a tratti noiosa. Come dire, troppa carne al fuoco; Clooney dirige un film che vuole essere al tempo stesso sentimentale ed ideologico, che ricalca contemporaneamente la "sophisticated comedy" e la "screwball comedy" e trova pure lo spazio per citare le comiche slapstick del cinema muto. In compenso però, l’interesse del pubblico è tenuto in vita dalle battute esilaranti dei due protagonisti e dall’ambientazione dell’epoca ricostruita in modo puntuale. Il fascino remoto del passato coinvolge ogni elemento scenografico, dalle locomotive alle primordiali macchine fotografiche, dalle auto d’epoca ai motorini, per passare agli hotel lussuosi e agli eleganti salotti, fino alle prime macchine per scrivere e ai telefoni neri. La fotografia ad "effetto seppia" è il meccanismo visivo che conferisce un senso di "antichità" alla pellicola ma appare più un vezzo del regista che una effettiva esigenza di realismo.

Il sentimento che pervade il film è dunque un sentimento di nostalgia ed indubbiamente le atmosfere ricreate da Clooney sono perfette e suggestive, ma il regista è ben conscio del fatto che la commedia sofisticata non è più in grado di incidere sulla vita della società americana come un tempo e quindi si limita a riproporre questo genere narrativo per divertire e divertirsi. Pertanto forse sarebbe stato opportuno abbandonare ogni pretesa di battaglia ideologica e concentrarsi sul lato sentimentale e leggero della storia anche perchè il feeling tra i due protagonisti è il vero punto di forza del film. Quando George e Renée inscenano scaramucce tra innamorati, ammiccamenti, sguardi allusivi e complici sembra davvero di rivedere un vecchio film romantico in cui basta un bacio, magari dato in circostanze improbabili, al buio, in un luogo quasi rarefatto, senza dove e senza tempo, avvolto da una luce diafana, a suggellare la promessa di un amore eterno.

lunedì 14 aprile 2008

Un amore al gusto di mirtilli per Norah e Jude



Il regista Wong Kar-wai ci dà nuovamente prova del suo talento e della sua sensibilità nella sua prima opera girata negli States. Jude Law e la straordinaria cantante Norah Jones insieme per dar vita ad una storia ricca di suggestioni e romanticismo.

di Maria Cristina Locuratolo 14 aprile 2008 23:04

“My Blueberry Nights”, titolo intraducibile in italiano e banalmente trasformato in “Un bacio romantico”, è un viaggio attraverso i sentimenti, nei reconditi spazi della memoria e del rimpianto, tra i deserti silenziosi e le musiche struggenti di chi ci ha amato e poi ci ha abbandonato. Ancora più struggenti se hanno la voce grandiosa e le note magiche di Norah Jones. Un viavai di ricordi che cerchiamo di dimenticare perdendoci nel frastuono della quotidianità, nell’oblio dell’alcol, nel brivido del gioco d’azzardo, nei tramonti infuocati. Guardiamo il mondo attraverso gli occhi appannati dalle lacrime di Elizabeth (Norah Jones) e di Jeremy (Jude Law), tra le nuvole di fumo di una sigaretta che si confondono tra i pensieri annebbiati, dietro i vetri sfumati e le insegne luminose di un bar che diventa luogo di incontro e di speranza. Ascoltiamo il loro dolore anche se tutto continua a scorrere, ecco un tram passare, un aereo che vola nel loro cielo malinconico, dei passi che si avvicinano. Lo scenario cambia, non è più la suggestiva Hong Kong di Wong Kar Wai a vibrare di vita e romanticismo, ma una nostalgica New York e gli spazi di un’America che inneggia alla libertà e all’avventura on the road. La storia è talmente intima e delicata che lo spettatore ha quasi la sensazione di violare il segreto e la sacralità di quell’intimità con il proprio sguardo che si posa commosso sui volti stanchi di due anime ferite, graffiate, unite dal fato in una notte fatta di nostalgie e cose perdute, di chiavi dimenticate e porte rimaste chiuse. E di torte mai mangiate al gusto di mirtilli, che creano un legame inspiegabile ed indissolubile tra chi le ha preparate e chi le consuma.

Un film di Wong Kar Wai che parla dell’elaborazione del lutto amoroso, del senso di perdita, dell’abbandono, della fine delle cose e dell’inizio di qualcos’altro. Un bacio suggella questo momento di passaggio, di transizione, di sospensione. Un bacio per togliere via l’amarezza e insieme i resti di panna e le briciole dalle labbra di Elizabeth addormentata. I volti, gli sguardi, gli stati d’animo dei protagonisti si imprimono nei nostri occhi; il regista riprende i loro piccoli gesti quotidiani (fumare una sigaretta o lavare un bicchiere), ne esprime tutto il senso e il pathos, racconta l’universo dei suoi personaggi e il loro incontro attraverso i dettagli di queste malinconie notturne. In silenzio soffriamo, ci emozioniamo fino a commuoverci quando vediamo Norah e Jude vicini sulle note di “Yumeji’s theme” brano in cui Wong Kar Wai si autocita riferendosi al suo capolavoro “In the mood for love”. Inizia così il viaggio di Elizabeth tra New York, Memphis, Las Vegas e ritorno, ma sopratutto tra le pieghe della sua verità, negli abissi profondi di un cuore spezzato. A New York ha lasciato un fidanzato che non la vuole più e che ora ama un’altra donna e un barista abbandonato dalla propria ragazza, depositario di chiavi dimenticate, che è diventato per lei un confidente e un amico con cui condividere il mal d’amore tra dolci che nessuno vuole mangiare nelle notti gelide ed insonni. I personaggi che la ragazza incontra nel suo singolare tragitto sono uno specchio in cui può riflettere se stessa. Elizabeth comprende e condivide il dolore altrui, il suo sguardo è com-passionevole e mai distratto, è quasi come se attraverso le ferite degli altri riuscisse a curare le proprie, prendere le distanze dal suo dolore. Andare via per vedere le cose farsi sempre più lontane e piccole.

Un poliziotto (David Stathairn) affoga nell’alcool il dispiacere per un amore perduto ma mai dimenticato fino alla disperazione assoluta e alla morte. Di lui resterà soltanto un lunghissimo conto in sospeso al pub cui si recava ogni sera a bere. Una giovane giocatrice d’azzardo (Natalie Portman), diffidente nei confronti della vita e del prossimo, sarà per un tratto compagna di viaggio di Elizabeth tra i cieli sconfinati d’America. Insieme piangeranno la morte del padre della spregiudicata pokerista. Il percorso iniziatico di Elizabeth è fatto di tappe in cui la ragazza delinea i propri sentimenti anche e sopratutto mettendoli in relazione con quelli degli altri. Il barista con cui Elizabeth ha condiviso una torta e inconsapevolmente un bacio diventa testimone di questi incontri e di questa crescita interiore attraverso estemporanee cartoline che la ragazza gli invia da ogni luogo che visita senza che lei gli lasci la possibilità di risponderle. Una comunicazione a senso unico, una sorta di diario di viaggio che contiene parole, riflessioni profonde, altrimenti non esprimibili se non attraverso la scrittura, che stabilisce un filo invisibile ma tenace tra Elizabeth e Jeremy, il quale si sta innamorando di lei senza che neanche possa accorgersene.

Così Jeremy attende ogni notte che la ragazza ritorni, si disfa delle chiavi di cui era depositario perchè comprende che alcune porte sono destinate a rimanere chiuse per sempre. E che non tutte le chiavi aprono tutte le porte e che qualora la chiave che abbiamo depositato apra la porta che vogliamo non sempre dietro c’è chi ci aspettiamo di trovare. Gli oggetti hanno vita propria come i sentimenti e come questi hanno una scadenza. Dopo 300 giorni e notti di attesa e di rinascita, i due ragazzi si rincontreranno al bar; le chiavi non ci sono più, ma c’è la torta di mirtilli che Jeremy ha preparato come ogni sera nella speranza che qualcuno la mangi. Il suo sapore e il suo aspetto sono diversi perché Elizabeth ora è cambiata, è una persona nuova e anche Jeremy non è più lo stesso perché finalmente si è lasciato alle spalle il passato. Come il gelato si unisce per confondersi e sciogliersi alla torta, così le anime dei due si riconciliano e costituiscono un tutt’uno in un bacio questa volta ricambiato, preludio di un nuovo viaggio da compiere insieme. Wong non è semplicemente un regista, è un poeta dell’immagine e dei sentimenti, il cui sguardo ci restituisce una realtà fatta di piccoli attimi (come lo è in questo caso il bacio). Momenti che dilata nel tempo, cogliendoli nelle loro infinite sfumature e angolazioni, rallentandoli, per non lasciarli scivolare via ma imprimerli nella memoria e nell’anima, rendergli lo spazio che meritano e consacrarli per sempre proprio perché unici ed irripetibili.

giovedì 3 aprile 2008

La Signora del Pop diventa regista


Madonna dirige la sua opera prima, il film "Filth and Wisdom" in cui racconta i suoi difficili esordi attraverso le vite di giovani personaggi in cerca di fama, aggiungendo al suo "sogno americano" il fascino europeo e la magia di Londra.

di Maria Cristina Locuratolo 3 aprile 2008 13:55

Alle soglie dei cinquant’anni la popstar Madonna continua ad intraprendere nuove sfide per lo più anticonvenzionali, a sperimentare, a stupire critica e pubblico, trasformando quasi sempre quello che produce in oro. E’ una donna senza età, coraggiosa, sempre sexy e al passo con i tempi. Anticipa mode, o meglio, le detta, riesce sempre ad attirare su di sè gli occhi (ed i riflettori) del mondo intero da oltre vent’anni.

La sua versatilità, il suo essere così camaleontica e inevitabilmente provocatoria, sempre pronta a nuovi look e nuove tendenze musicali l’ha resa un modello per colleghe più giovani di lei che hanno intrapreso la carriera di popstar: dalla sfortunata Britney Spears all’"ugola d’oro" Christina Aguilera fino alla bellissima Gwen Stefani. Più che una diva è una vera propria icona, sempre ai confini tra sacro e blasfemo, sin da quando negli anni Ottanta cantava “Like a Virgin” inguainata in improbabili tutine di latex, con reggiseni di latta e crocifissi enormi al collo e giocava col sesso sovvertendo i rapporti uomo-donna, subordinando il potere maschile a quello femminile.

Ora la “Material Girl” è cresciuta, pur mantenendo intatta la sua anima pop e trasgressiva; è più dolce, addirittura materna quando appare sui giornali con i figli Lourdes Maria e David Banda. Ma la voglia di ammaliare, di incantare il proprio pubblico sia con una canzone che con uno spettacolare show dal vivo rimane la stessa degli inizi. Il suo nuovo album, in uscita il 28 Aprile, ha un titolo che ben racchiude l’ambiguità dell’artista, la dualità della sua personalità: “Hard Candy”. Nome che allude ancora al sesso che la popstar definisce maliziosamente “una cosa dura e dolce come una caramella” ma Madonna assicura anche che questo cd “sarà come un calcio...ma tuttavia piacerà molto”.

“Filth and Wisdom (“Sporcizia e Saggezza”) è l’opera prima della “signora Ciccone” come regista. Il film, presentato all’ultimo Festival di Berlino, racconta la storia di alcuni ragazzi che stanno cercando il loro posto nel mondo con tutte le ansie e le paure che questo comporta. C’è una parte di Madonna nei personaggi del suo film, dalla ballerina che non avendo un palco su cui esprimere la propria arte, si esibisce con la lap dance, al musicista che gira per far conoscere la propria musica. A vent’anni la popstar lottava per trovare la propria strada prima come ballerina poi come cantante, tentava di sopravvivere a New York sgomitando, guadagnando quel poco che le serviva per avere un tetto sulla testa e qualcosa da mangiare. La “caccia alla fama” prevede alti e bassi, rovesci della fortuna, una via verso il paradiso per cui è obbligatorio passare dall’inferno (la “sporcizia” per arrivare alla “saggezza”) ma, come si sa, “audaces fortuna iuvat”.

La strada in ascesa verso il successo è ben racchiusa nel personaggio interpretato da Eugene Huntz, leader dei gipsy punk Gogol Bordello, e già attore, nei panni di uno zingaro matto, nel film “Ogni cosa è illuminata”. In “Filth and Wisdom” i protagonisti hanno un’anima nomade che affascina molto Madonna in quanto reputa che una vita “da zingari” sia aperta a più possibilità, e anche lei in un certo senso si sente un pò vagabonda perchè adora girare il mondo per conservare quel sapore di profondità ed autenticità che ogni viaggio porta con sè. Il “sogno americano” di Madonna si trasforma nel film in un sogno tutto europeo, per la precisione londinese; è infatti la cupa e grigia Londra a fare da sfondo alla storia e non la Grande Mela poichè è nella capitale britannica che la star ora vive con la famiglia. La storia vissuta dai protagonisti del film mostra come la libertà, quella sorta di “illuminazione” che permette di dare una svolta alla propria vita, può avere origine anche da e in un luogo difficile e squallido; l’esistenza umana si muove sugli opposti, così si può partire dal basso per arrivare al sublime.

Dal punto di vista stilistico la pellicola è un “pout-pourri” di generi diversi, si va dalla commedia al musical, dal videoclip al dramma, dando vita ad un’opera post-moderna che mutua immagini e riferimenti dalla tv, dalla danza alla fotografia, dalla moda al panorama musicale contemporaneo, perfettamente in linea con la regista, eccentrica, non catalogabile, decisamente pop. La libertà produttiva ha permesso a Madonna di fare un lavoro autoriale e autobiografico, ironico ed autoironico, con musiche sue e di artisti cari alla star: la colonna sonora è cantata da Britney Spears e alcuni pezzi sono composte da Alexander Kolpakov, zio del protagonista Eugene Hutz.

Ma forse l’aspetto veramente interessante del film è la modalità di fruizione anticonvenzionale e democratica che la regista ha scelto per il suo pubblico; la pellicola infatti non sarà proiettata al buio di una sala cinematografica nè sarà un blockbuster da incassi record ma potrà essere visibile unicamente via web. Forse ancora una volta Madonna anticipa i tempi e, magari chissà tra qualche anno, Internet potrebbe diventare il canale preferito non solo per ascoltare la musica, come già avviene ora, ma anche per guardare i film trasferendo il cinema sullo schermo del nostro pc.

martedì 11 marzo 2008

Il lungo addio a Heath Ledger


L’indimenticato cowboy di Brockeback Mountain tornerà ad emozionarci ancora sul grande schermo regalandoci le sue ultime interpretazioni, prima della sua morte improvvisa, in "The dark Knight" e "The Imaginarium of Doctor Parnassus".
di Maria Cristina Locuratolo 11 marzo 2008 17:00

L’ultimo saluto a Heath Ledger, giovane e talentuoso attore australiano, è avvenuto, un mese fa, sulla spiaggia di Cottesloe, in Australia, dove Heath amava praticare il suo sport preferito, il surf. Fa male pensare che un ragazzo con un futuro smagliante davanti a sé, una figlia di poco più di due anni e ancora tanti sogni da realizzare si sia spento a soli 28 anni. Il suo corpo, ora cremato, giaceva nudo sul letto del suo appartamento a Soho, con accanto dei medicinali, antidolorifici, tranquillanti e sonniferi. Gli esami tossicologici effettuati hanno reso noto che l’abuso accidentale di questi farmaci, tra l’altro regolarmente prescritti a Ledger dal suo medico, ha provocato la morte dell’attore nel giro di poche ore, chiarendo i dubbi sul suo decesso.

Heathcliff, questo è il suo nome di battesimo, nasce il 4 Aprile 1979 a Perth, in Australia. Origini per metà irlandesi e metà scozzesi, il suo nome è legato al famoso protagonista di un classico della letteratura britannica, Cime Tempestose di Emily Bronte, romanzo molto amato dalla madre. I suoi genitori divorziano quando lui ha solo 10 anni e questa esperienza contribuisce a far maturare rapidamente Heath, il quale sceglie di vivere con il padre e la sorella Kate, e ancora giovanissimo decide di entrare a far parte della Globe Shakespeare Company, nella sua città natia. Si iscrive anche alla Guildford Grammar School, dove eccelle anche nell’hockey oltre che nella recitazione. Dopo il diploma va in cerca di fortuna verso Sidney dove spera di trovare successo. La prima occasione gli si presenta nel 1996, quando interpreta uno dei primi personaggi gay della televisione australiana nella miniserie “Sweat”. Il grande schermo non si fa attendere, e l’anno seguente Heath veste i panni di Toby Ackland nel film di Steven Vidler, “Blackrock”. La Fox lo ingaggia per la serie tv “Roar” che si rivelerà un flop ma farà conoscere l’attore al pubblico. Heath ritorna in Australia per girare “Two Hands” e subito dopo vola verso gli USA per il film di Gil Junger “Le dieci cose che odio di te”, una commedia romantica ispirata all’opera shakesperiana “La bisbetica domata”.

Il 2000 è l’anno della svolta: partecipa alle audizioni per un film di Mel Gibson ,“Il Patriota”, e viene scelto tra oltre 200 candidati. Heath entra così a far parte dell’Olimpo hollywoodiano. Seguono altri lavori, “Il destino di un cavaliere”, “Monster’s Ball – L’ombra della vita”, “Le quattro piume”, e “Ned Kelly” che lo consacra definitivamente al successo e gli vale una nomination all’Australian Film Institute. Il 2005 è decisamente l’anno fortunato di Ledger, presente in tre pellicole importanti, tutte presentate al Festival di Venezia: “I fratelli Grimm e l’incantevole strega” di Terry Gilliam con la Bellucci e Matt Damon, “Casanova” di Lasse Hallstrom e infine il film di Ang Lee che ha vinto il leone d’oro quell’anno “I segreti di Brockeback Mountain”, in cui Heath dà una mirabile prova del suo talento nelle vesti del primo cowboy gay della storia del cinema.

Sul set l’attore conosce un’altra giovane promessa di Hollywood, Jack Gyllenghaal, con il quale stringe una sincera amicizia, e Michelle Williams, con cui convola a nozze e concepisce Matilda Rose. La parte del cowboy omosessuale ed omofobico, Ennis del Mar, consente all’attore di aggiudicarsi la candidatura all’Oscar e numerosi riconoscimenti. Sempre nel 2005 prende parte al film “Lord of Dogtown” dove interpreta divertendosi il ruolo di un giovane Skip accanto ad Emile Hirsch. Il 2006 è l’anno di “Paradiso + Inferno”, produzione indipendente di Neil Armfield in concorso al Festival di Berlino, in cui Heath è un tossicodipendente che vive una tormentata storia d’amore. Nel 2007 Ledger partecipa al biopic su Bob Dylan molto applaudito a Venezia, “Io non sono qui”, pellicola in cui l’attore conferma il suo estro e il suo carisma e dove divide il set nuovamente con la moglie Michelle Williams e con attori del calibro di Cate Blanchett (che per il ruolo ha ricevuto la Coppa Volpi) e Richard Gere.

Lo stesso anno Heath è impegnato nelle riprese del sequel di “Batman begins”di Christopher Nolan, “The Dark Night”, nei panni del nevrotico Joker, ruolo interpretato da quel mostro sacro che è Jack Nicholson nella prima pellicola sull’uomo-pipistrello resa memorabile dalle visioni gotiche di Tim Burton. Nicholson, infatti, apre un’aspra polemica col regista che non solo non lo ha scelto per il sequel preferendo Ledger perchè “talentuoso e sempre pronto alle sfide” ma non ha chiesto neanche la sua consulenza sul personaggio che più degli altri ha segnato la carriera dell’attore.

L’ultimo incompiuto lavoro di Ledger è il fantasy di Terry Gilliam, regista che stimava particolarmente Heath, dal titolo “The Imaginarium of Doctor Parnassus”. La pellicola, in seguito alla morte dell’attore, ha subito una battuta d’arresto. Si era pensato di ricorrere all’uso della computer grafica per girare le scene mancanti in cui doveva comparire Heath ma alla fine si è deciso di onorare la memoria dell’attore facendo interpretare il suo personaggio ad un trio d’eccezione: Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Il cambio delle fattezze del protagonista è giustificato da un incantesimo dovuto all’utilizzo di uno specchio magico. La pellicola diventa così un corale tributo all’attore da parte del regista che non voleva che il lavoro di Ledger andasse perso ma anzi voleva offrire al pubblico l’ultimo bagliore di una stella spentasi tragicamente ma sempre viva nel cuore di chi l’ha amata.

Una serie di scelte sbagliate nella vita lavorativa come in quella privata, hanno ostacolato il cammino di Heath. Non ha avuto il ruolo di Peter Parker in “Spider-Man” che lo avrebbe consacrato ben più facilmente al successo, nè quello di Anakin Skywalker, per cui è stato scelto Hayden Christensen. Baz Luhrmann, conterraneo di Heath, preferisce Ewan McGregor accanto alla divina Nicole Kidman per “Moulin Rouge!” e, forse in nome di un vecchio risentimento, Ledger rifiuta la parte propostagli dal regista per il suo nuovo film “Australia” che vede ancora la Kidman come interprete femminile. Il matrimonio con la collega Michelle Williams, nonostante gli abbia regalato una splendida bambina, ha vita breve e Heath sprofonda nel tunnel cieco della depressione. Al ritrovamento del suo corpo si parla di droga; giorni dopo la sua morte alcuni show televisivi americani vorrebbero proporre al pubblico alcuni video in cui Heath sembra partecipare ad un droga party in cui però non fa uso di sostanze ma dichiara di aver fumato marijuana in passato.

Come sempre, in questi casi, certa televisione e certa stampa non rispettano il dolore di chi ha subito il trauma di un lutto, ancor più doloroso se così prematuro ed inaspettato, e preferisce trovare i motivi, reali o presunti, per infangare la memoria di una persona piuttosto che onorarla. Si è parlato di Ledger come di un tossicodipendente, si è ipotizzato il suicidio, ma la morte di Heath è solo un altro tragico scherzo del destino che ha strappato, così crudelmente, la vita a questo angelo biondo dalle straordinarie doti interpretative che aveva ancora tanto da dare a chi amava e al suo pubblico. Addio Heath, riposa in pace.

sabato 23 febbraio 2008

Cloverfield: attacco a New York


Un horror fantascientifico girato come un video amatoriale; un "disaster movie" in cui cinque giovani newyorkesi restano coinvolti in un attacco alla città perpetrato da un mostro gigantesco e misterioso. 85 minuti da togliere il fiato.
di Maria Cristina Locuratolo 23 febbraio 2008 13:48

L’ombra apocalittica dell’11 Settembre può assumere moltiplici sembianze. Anche quelle di un mostro che sembra la reincarnazione di Godzilla, terrificante ed oscuro, che si muove su New York come un gigantesco ragno e genera altri mostriciattoli che sbucano dal sottosuolo come topi affamati, creature figlie della mitologia e delle paure dell’uomo contemporaneo. J.J Abrams, creatore di successi come Lost e Alias, è l’artefice del "disaster movie" Cloverfield che si prefigge di mostrare con realismo l’irreale attraverso l’occhio impietoso e spaventato di una camera a mano che non tutto può vedere ma che resta sempre accesa, segue la paura, la filma, documenta l’inimmaginabile.

All’inizio del film una didascalia avvisa che le immagini che seguono sono state ritrovate a Cloverfield, zona nota come Central Park a New York. Il pretesto narrativo che giustifica la presenza di una telecamera digitale riprendente l’accaduto è un party organizzato da un gruppo di ragazzi che festeggiano la partenza di un amico per il Giappone. Appena il tempo di conoscere i partecipanti della festa e poi un black-out improvviso, nel buio un boato che sembra un terremoto.

Un’esplosione nel cuore della città, a Manhattan, il crollo inspiegabile di un grattacielo; i ragazzi corrono per strada, intravedono la sagoma di un terrificante e misterioso mostro mentre la testa gigantesca della Statua della Libertà, emblema della Grande Mela, rotola per le vie del centro schiacciando tutto. Sul fiume Hudson campeggia il simbolo della libertà decapitata, il panico induce gli abitanti della città sotto assedio a cercare vie di fuga ma nessun posto è sicuro. Così inizia una folle e confusa corsa sul ponte di Brooklyn che però crolla inesorabilmente dopo un colpo di coda della mostruosa creatura.

La telecamera digitale è testimone di tutto questo, il suo riprendere inesperto è invece abilmente studiato dal regista Matt Reeves, così come i frequenti flashback e forward sono giustificati dalla precedente registrazione sul nastro di un video amatoriale. Il resto del film mostra il disperato tentativo dei ragazzi superstiti di salvare una loro amica rimasta intrappolata sotto le macerie del suo appartamento situato proprio nel centro di New York ovvero dove il mostro ha attaccato la città.

Si potrebbe leggere Cloverfield come una metafora del terrorismo, piaga del nostro tempo; le immagini dell’attacco a New York nel film richiamano alla memoria quelle dell’11 Settembre, sono immagini che tuttavia non svelano niente, non danno risposte, lasciano insoluto il mistero di una minaccia che c’è, è incombente ma di cui non si sa niente o molto poco e per questo fa ancora più paura. Il mostro in Cloverfield non ha un’identità ben definita: spaventa, uccide, si sa solo questo. Si muove al buio come una piovra o come un ragno, tesse una ragnatela di morte e terrore e i figli che genera agiscono come lui nell’ombra, eppure sono lì pronti ad attaccare con ferocia, spuntano dalle viscere della terra per mangiare esseri umani. Chi viene a contatto con queste oscure creature muore, se si viene solo morsi si è destinati a scoppiare come un kamikaze.

Ma le analogie con l’attacco alle Twin Towers e i punti di contatto con il terrorismo sono solo una chiave di lettura del film che, forse, molto più semplicemente nasce dalle suggestioni di J.J.Abrams in seguito ad un suo viaggio in Giappone, in cui si è dilettato a girare per negozi di giocattoli sulla scia di Godzilla e Gamera, leggendari mostri orientali che fanno parte dell’immaginario collettivo. Oppure si può banalmente ridurre Cloverfield ad una abile strategia di marketing, messa in atto soprattutto tramite internet. In rete, infatti, si è creato il fitto mistero sul film, attraverso i trailers inquietanti, gli indizi sulla trama, le teorie sulle sembianze e la natura del mostro. Un gioco che i produttori hanno diretto con maestria, attenti a non scoprire troppo le loro carte ma forse caricando troppo di aspettative l’eventuale spettatore.

In ogni caso Cloverfield ha il merito di essere una pellicola innovativa, che potrebbe inaugurare un nuovo genere di horror, non più basato su sangue e scene "splatter", ma sulla paura, quella più pura e primordiale e sull’immedesimazione che è possibile quando si conferisce alle immagini un certo realismo, senza dover provocare a tutti i costi disgusto, e quando gli attori non sono volti noti ma persone comuni, come tante altre. Il finale non risolutorio continua a tener viva la tensione e a catalizzare l’attenzione degli spettatori e, se non fosse solo lo spunto per realizzare dei sequel, potrebbe assicurare a Cloverfield un piccolo spazio nella storia del cinema come un film che ha centrato in pieno l’idea della paura, lasciandoci all’oscuro, senza nessuna verità o perchè, negandoci l’identità di una minaccia mostruosa che trae forza proprio dal suo essere ignota.

mercoledì 6 febbraio 2008

Sweeney Todd : the Demon Barber of Fleet Street. Questa volta Burton non perdona


Dai palchi di Broadway al grande schermo: la leggenda inglese sul barbiere tagliagole entra nell’universo delle favole dark di Tim Burton. A Roma per la rassegna "Viaggio nel cinema americano" ha raccontato il suo ultimo lavoro e le sue precedenti pellicole.

di Maria Cristina Locuratolo 6 febbraio 2008 15:48

Il mondo gotico di Tim Burton si tinge di rosso. Una macabra leggenda londinese è il soggetto del suo nuovo attesissimo film, il suo primo musical-horror, Sweeney Todd: the demon barber of Fleet Street. A sorpresa, ad anticiparne l’uscita in Italia il 22 febbraio, è tornato a Roma Tim Burton. Il regista ha incontrato la mattina del 23 Gennaio la stampa presso l’Hotel Hassler e la sera il suo affezionatissimo pubblico all’Auditorium Parco della Musica per inaugurare una serie di incontri dal titolo "Viaggio nel cinema americano", a cura di Mario Sesti e Antonio Monda. Il film, dark e sanguinolento, si ispira al genere del grand guignol ed è basato su una urban legend ottocentesca secondo cui Sweeney Todd, un provetto barbiere assassino assetato di sangue e vendetta, avrebbe tagliato la gola a circa 160 malcapitati clienti per farne poi dei deliziosi pasticci di carne da vendere a prezzi stracciati. Complice del barbiere-killer in questo diabolico piano è la vedova Lovett (Helena Bonham Carter) cuoca fedele e ossessiva con tanto di tritacarne e forno per preparare i tortini. La vicenda rientra perfettamente nella tradizione delle leggende metropolitane inglesi. E’ infatti cruda e macabra, ricorda molto Jack lo squartatore, personaggio tra l’altro interpretato da Depp nel film dei fratelli Hughes. La storia di Sweeney, dopo aver ispirato cinema e prosa, è stata consacrata al successo grazie al pluripremiato musical teatrale del 1979 di Stephen Sondheim a Broadway: "Quando ho visto la pièce teatrale - dice Burton - mi ha affascinato per la sua commistione di horror ed umorismo e per la bellezza della storia. Come se Edward Scissorhands fosse diventato depresso. Il protagonista è di una pervertita purezza: un cattivo diabolico e al contempo tragico". L’accostamento Edward-Sweeney non è casuale. Entrambi si servono di lame ma questo strumento di morte viene utilizzato in due modi opposti: il primo infatti crea mentre il secondo distrugge.

In realtà il musical aveva colpito Tim già ben cinque anni fa, quando lui, allora senza una ragione precisa, fece ascoltare a Johnny Depp la colonna sonora dell’opera teatrale. Quando poi telefonò Johnny chiedendogli se era il caso di provare a realizzare qualcosa, l’attore accettò, pur conoscendo le difficoltà cui sarebbe andato incontro non essendo un cantante. "Johnny ha una qualità straordinaria, che è quella di mettersi costantemente alla prova, sempre pronto a nuove sfide". La prova di Depp è stata eccellente, anche perché come lo stesso Burton ha dichiarato, il film non necessitava di un cantante professionista ma di un attore che interpretasse le canzoni, che esprimesse tutta la tragicità della vita e del personaggio di Sweeney. La musica, per la prima volta nei suoi film, compenetra nella narrazione, intesse la storia dove convivono comicità e dramma, in pieno stile burtoniano "L’idea di far esprimere personaggi tanto chiusi con la musica mi allettava molto. Rispetto al musical di Sondheim, ho eliminato i cori e i balli in strada: cantano solo i protagonisti, come fosse un film muto accompagnato dalla musica. Del resto con Johnny condivido l’amore per i vecchi horror, le produzioni Hammer o Mario Bava, e per attori vecchio stile, da Peter Lorre a Boris Karloff, capaci di parlare con gli occhi".

Burton ha trovato la storia molto attuale, ma nega ogni legame con la realtà odierna: "affronto i film a livello subconscio, simbolico e non letterale, anche se queste cose aleggiano attorno a noi, basta leggere un giornale o guardare un tg. Ma per lavorare in superficie, ci sono registi migliori di me. Per me Sweeney Todd è una favola, e come tutte le favole attingono alle emozioni umane, resistono ai secoli, hanno sempre plurimi contatti simbolici ed emblematici con la contemporaneità. Eat or be eaten, un concetto molto americano". La modernità del film è da ricercarsi nel rapporto tra i due personaggi, Sweeney e Mr Lovett: "una non comunicazione nella vicinanza, oggi molto frequente nelle relazioni umane". L’eroe burtoniano, in questo film, non è però portatore di valori positivi come gli altri che lo hanno preceduto, ma è un dannato dominato solo dalla vendetta e l’omicidio diventa per lui uno strumento per perseguire quella giustizia negata e pareggiare i conti con un destino crudele. Infatti la tag-line sulla locandina del musical non lascia spazio a dubbi su quello che sarà il monito del film: Never forget. Never forgive (Mai dimenticare. Mai Perdonare), frase di sicuro effetto, sopratutto se letta nella sua lingua originale dove l’allitterazione ne amplifica il senso.

Parlando del personaggio di Sweeney, Tim ha detto: "la vendetta è qualcosa di sgradevole ma riguarda tutti noi e la sua forma più estrema è quando uno Stato la cerca su un altro". La visione di Burton si fa meno incline a quella speranza che era sempre possibile intravedere nelle sue opere e nei suoi eroi dall’animo delicato e sensibile. "Progressivamente le cose si sono fatte più interiorizzate e complicate. Forse sono più dark ma cerco sempre di metterci humour. Ne ho parlato anche con Johnny (Depp): forse 10 anni fa sarebbe stato un film diverso, oggi siamo più malinconici, avvertiamo un senso di perdita, anche quando le cose vanno bene". E per Tim le cose vanno benissimo. Accolto con un’ovazione da una folla gremita all’Auditorium, Burton ha ripercorso con il suo pubblico le tappe della carriera, dagli esordi di Edward mani di forbice, film che occupa un posto privilegiato nel suo cuore alla sua ultima fatica. Tim ha ribadito il legame personale che intercorre tra lui ed il personaggio di Edward, che si configura come il suo alter ego cinematografico, anche se, come dice con il suo immancabile humour, ha voluto dargli un volto più carino del suo ed è per questo che ha scelto Johnny Depp. Al pubblico romano è stata riproposta una scena di Batman, film in cui il regista riesce abilmente a conciliare le esigenze commerciali con un prodotto di qualità che torna alle vere origini del fumetto.

Burton ha anche parlato di Mars Attack!, pellicola che prende spunto da un prodotto di massa come le figurine, ma da cui parte una riflessione sulla situazione politica americana che fa sentire Tim un po’ come i marziani del suo film, disorientati e confusi in un mondo alienante. Il regista ha rivisto una scena del film Ed Wood, opera che lui ha dedicato al "regista peggiore del mondo" per analizzare il filo sottile tra successo e fallimento e osservato con emozione una scena di quello che è stato considerato il suo capolavoro, Big Fish. Film Surreale e poetico in cui Tim ci accompagna in un viaggio tra sogno e realtà, vero e verosimile, sospende la nostra incredulità e ci invita ad andare oltre le apparenze per scoprire cosa si cela "dietro", in profondità. Infine il regista si è messo a disposizione del pubblico e della stampa, rispondendo alle domande, ma per scaramanzia non ha detto nulla sul suo nuovo progetto in 3D (Alice in Wonderland), anche perché ancora troppo immerso nelle atmosfere cupe di Sweeney Tood. Tim, creativo folletto visionario senza età, sembra davvero provenire da un’altra lontana, magica dimensione. Ogni incontro con lui è speciale, lascia un segno indelebile, e non solo in quanto artista geniale capace di costruire mondi fantastici con la propria arte. Ma soprattutto perché è un uomo dotato di cuore, sensibilità ed umiltà, interessato a percorrere vie sempre nuove, per sentieri ai più sconosciuti, verso gli abissi e i sogni dell’intricato animo umano.